Badenheim 1939
Aaron Appelfeld
Guanda
A Badenheim è primavera, arrivano i villeggianti. Godono l’aria fresca, un festival artistico organizzato dall’impresario Pappenheim, e – volendo – di Sally e Gertie, signorine “intente ad adescare, sì, ma con eleganza”. I cittadini perbene hanno cercato di allontanarle, battaglia persa. Solo il pasticciere resiste, negando le sue squisite torte alla crema. Provvede un giovane dottore che compra i dolci e li regala alle ragazze che fanno amicizia con gli sconosciuti. Scandalo, negli anni Trenta dell’immaginaria località austriaca (non è l’unico, il medico è lì in vacanza con una ginnasiale). Il pasticciere sarà ubbidiente e collaborante, quando il Dipartimento sanitario comincerà a fare indagini sull’origine dei vacanzieri e degli indigeni. Le torte, le signorine, l’alterna moralità del pasticciere sono dettagli che mettono i brividi, quando leggiamo “Badenheim 1939” di Aharon Appelfeld. Sono i brividi che secondo Vladimir Nabokov segnalano i bei libri, annunciati appunto dal friccico che delizia le scapole (non uno smontaggio strutturalista, neppure l’abilità di frugare nel dizionario estraendone aggettivi a caso). E i brividi della Storia. Mentre l’impresario Pappenheim cerca di mettere insieme l’orchestra che allieterà le serate, e le giornate pigramente trascorrono, il Dipartimento sanitario identifica e registra gli ebrei. Noi sappiamo cosa accadrà, il primo settembre del 1939.
I personaggi del romanzo non afferrano i segnali, né i voltafaccia poco rassicuranti degli anziani che già l’estate precedente avevano protestato per le “melodie ebraiche” in programma. Gli Ispettori sanitari portano filo spinato e cemento, ma neanche questo spaventa: tutti pensano a un grande avvenimento mondano. Si parla di un trasferimento degli ebrei registrati in Polonia, qualcuno si preoccupa perché dovrà studiare il polacco – dalla Polonia sono partiti i suoi antenati e la lingua chi se la ricorda più. Si sussurra che il trasferimento avverrà in treno. Non bisogna aver timore perché a Varsavia c’è ogni cosa, anche per nutrire i pesci rossi che qualcuno vuole portarsi dietro. Chi fa il musicista continuerà a suonare, si sa che i polacchi sono un popolo accogliente. “Badenheim 1939” è il primo romanzo scritto in ebraico da Aharon Appelfeld, nato nel 1932 in Bucovina (che allora era Romania), un anno prima del regista Roman Polanski, nato a Parigi dove i genitori erano emigrati, e ritornato nel 1936 a Cracovia con la famiglia, spaventata dall’antisemitismo francese. Entrambi i ragazzini sopravvissero all’Olocausto cavandosela da soli. E mentre il regista non ha mai voluto raccontare quegli anni (ce n’è traccia in “Il pianista”, dopo molto tempo), lo scrittore ha raccontato – e rielaborato nei suoi romanzi – la vita e la sua educazione criminale. Nel 1946, dopo tre mesi a Napoli, partì per un kibbutz, studiò la Torah e imparò l’ebraico che divenne la sua lingua letteraria. Il mondo agghiacciante di “Badenheim 1939” ricorda “La città senza ebrei” di Hugo Bettauer, bestseller austriaco uscito nel 1922 (furono vendute 250.000 copie in pochi mesi). Gli ebrei vengono cacciati da Vienna (più o meno per i soliti motivi). Ed è subito crisi: chiudono le banche, i caffè, le industrie, i teatri, le ragazze rimpiangono i corteggiatori, particolarmente assidui e fantasiosi. Verranno richiamati a furor di popolo. Il “Romanzo di dopodomani” – così il sottotitolo – aveva un lieto fine. Virato in nero già molto prima del fatidico 1939. L’ebreo Bettauer viene ammazzato nel 1925, da un giovane nazista. Mariarosa Mancuso - Il Foglio