Una speranza di cambiamento 19/07/2016
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Autore: Ugo Volli
Una speranza di cambiamento
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli


Donald Trump, Hillary Clinton

Cari amici,

come avete letto è iniziata ieri la convention repubblicana a Cleveland, con le solite contestazioni di coloro che a sinistra, in America come in Italia non accettano di avere concorrenti dall’altra parte e, con un pretesto o con l’altro, vorrebbero sempre vincere per squalifica dell’avversario, come hanno fatto a lungo con Berlusconi e hanno cercato di fare con la Brexit, o magari impedirgli semplicemente di parlare con la forza, come hanno fatto sistematicamente con Salvini e hanno cercato di fare anche con Trump. C’è una sinistra istituzionale e non che sinceramente si considera la sola portatrice dei valori, dell’etica, dei diritti e che si ritiene autorizzata a violare tranquillamente le leggi “per difendere la democrazia”, com’è accaduto in Austria.

Ma in realtà il tentativo di eliminare gli avversari importuni ne suscita sempre di nuovi, magari anche meno simpatici: perché in politica, se non c’è una dittatura ferrea, conta soprattutto la percezione collettiva, dunque la “domanda”, per esprimerci in termini di mercato; e l’”offerta”, cioè l’organizzazione di forze politiche e l’emergere di leader segue sempre. E in questo momento la domanda politica è soprattutto sulla sicurezza e sull’identità collettiva. In Europa per il disastro dell’immigrazione, con cui i vertici dell’Unione Europea, Bergoglio, Merkel e chi li segue, con la massima buona volontà economica o religiosa, stanno ponendo le premesse di una guerra civile - e ormai l’elettorato se ne accorge benissimo. In America Obama non solo ha incoraggiato i nemici del paese che gli è stato affidato, perdendo o abbandonando spazi strategici essenziali come il Medio Oriente e l’Asia orientale (perché se uno è debole con l’Iran e con la Russia, non è che la Cina e perfino il Nord Corea non se ne accorgono e rispettano i limiti della buona educazione), ma ha provocato un germe di guerra civile, incoraggiando i movimenti di contestazione alla polizia ed evitando accuratamente anche solo di nominare, non diciamo di combattere, il terrorismo islamico. Il risultato è che per la prima volta dall’11 settembre il territorio metropolitano degli Stati Uniti è diventato oggetto di varie forme di terrorismo, gli attentati contro la polizia, l’ultimo l’altro ieri a Baton Rouge, e gli attacchi islamisti come a Orlando.

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Il momento caldo delle elezioni americane è comunque iniziato con le convenzioni, che non sono congressi di partito, dato che tutto è già deciso, dai candidati ai programmi, ma gigantesche manifestazioni elettorali. A Obama restano meno di sei mesi per combinare disastri, speriamo che non ne faccia degli altri, che bastano e avanzano. Proprio ieri è uscita la notizia di un patto segreto con l’Iran (naturalmente non sottoposto dal presidente “democratico” al Congresso, che non l’avrebbe approvato), che conferma esattamente le peggiori previsioni di Netanyahu, concedendo all’Iran l’uso di centrifughe di nuova generazione per arricchire l’uranio, che portano a sei mesi il tempo di allestimento di una bomba atomica (http://www.lastampa.it/2016/07/18/esteri/iran-spunta-un-accordo-segreto-per-continuare-il-programma-nucleare-6iT6lgqKu51wF73dS9pvsJ/pagina.html), mentre la costruzione dei missili balistici per portare queste bombe a destinazione prosegue indifferente a tutte le proibizioni dell’Onu, che Obama si rifiuta di sostenere.

I candidati alla successione sono chiari. Da un lato c’è Hillary Clinton, che rappresenta l’establishment e la continuità con la politica di Obama, di cui del resto è corresponsabile. Il programma elettorale che ha accettato, oltre a contenere gli stessi elementi di occultamento politically correct della minaccia islamista, ostenta equidistanza fra Israele e i terroristi palestinisti, cioè minaccia nuovi fallimenti in Medio Oriente e nuove pressioni su Israele perché si suicidi, anche se probabilmente in maniera formalmente meno odiosa di Obama.

Trump, piaccia o meno, è la rottura, la percezione chiara del pericolo non episodico cui è sottoposta l’America e tutta la civiltà occidentale. Rappresenta una reazione, che non ha paura di violare tabù e luoghi comuni e che cerca di utilizzare l’immensa forza dell’America per raddrizzare la situazione prima che sia troppo tardi. Il programma repubblicano è il più filo-israeliano che sia comparso da decenni, tanto che i pavidi centristi dell’Anti Defamation League (per non parlare di J-Street) hanno fatto pressione per “moderarlo”.

Trump è tutt’altro che simpatico, ha modi e stile comunicativo che a me non piacciono affatto, ha commesso anche alcune gaffes su temi importanti. Ma non è lui il conservatore: chi vuol conservare la politica disastrosa di Obama e l’atteggiamento suicida della società occidentale degli ultimi decenni è Clinton. A parte i dubbi sulla moralità personale della signora, che come Segretario di Stato ha combinato almeno un grossi guaio (Bengasi) e ha mostrato il suo disprezzo per le regole di garanzia con la faccenda delle mail segrete tenute sul suo server privato e poi in parte cancellate, è per ragioni politiche che, a mio modo di vedere, bisogna stare dalla parte di Trump. La speranza di cambiamento, spesso, passa anche per personaggi assai diversi dal glamour e dai modi educati dei vecchi politici. Oggi è così, in Europa come in America. Perché non è solo Obama ad aver tradito profondamente il suo ruolo, ma tutta una classe dirigente.

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Ugo Volli


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