Dopo nove mesi trascorsi sul fronte galiziano nella fanteria dello zar, il giovane ebreo polacco Binyamin Lerner torna nella sua città: Varsavia. Siamo nel cuore della Prima guerra mondiale, e all’inizio di Acciaio contro acciaio, il romanzo di Israel J. Singer pubblicato da Adelphi. La Polonia, terra di eterne contese, è al momento sotto il dominio dei russi, ma tutte le voci parlano della forte probabilità che l’esercito tedesco prenda il loro posto. Varsavia è immersa in una cappa di caldo massacrante. Il ponte sulla Vistola, che gli artificieri stanno minando per farlo saltare nel caso di una imminente ritirata, è invaso da una turba di gente che va e viene, creando un ingorgo mostruoso: soldati, fuggiaschi, malati, poveracci, animali, carrozze, camion, un corteo funebre ebraico, convogli militari. Sotto, a poche decine di metri da questa trappola immane, un gruppo di ragazzi e di ragazze sguazza felice nelle acque del fiume.
E più avanti, un negozio di vestiti continua a tenere i modelli in vetrina, qualcuno ha comprato un mazzo di fiori. Varsavia sembrerebbe uguale a nove mesi prima. Invece c’è la guerra. E Lerner dovrebbe presentarsi al comando per tornare in prima linea. Ma il fiume è un’attrazione troppo forte. Anche lui scende vicino all’acqua, si sveste dei panni da soldato, cede al sonno. Quando si sveglia — troppo tardi: ormai è diventato un disertore — l’unico rifugio possibile è la casa di suo zio: Reb Baruch Yosef. Viene accolto a braccia aperte, ma anche con qualche preoccupazione, perché i delatori sono ovunque; e passa qualche giorno.
Una notte, Gitta, la figlia di Baruch Yosef, che di Binyamin è stata innamorata fin dalla fanciullezza, entra in silenzio nella sua stanza per osservare il ragazzo che dorme. È una notte di luna: riflessi meravigliosi si distendono sui suoi capelli neri. Binyamin si sveglia. «Mi ami ancora come una volta?», lei gli sussurra. È una pausa, questa, destinata a durare ben poco. Reb Yosef, un visionario caparbio, è stato costretto ad abbandonare la sua tenuta al confine austriaco, ha fatto le speculazioni che era meglio non facesse, e ora è alle soglie dello stremo. Un ricco amico ebreo, tale Yekel Karlover, che invece ha saputo indovinare le speculazioni giuste, e vorrebbe sposare Gitta, non manca un giorno di farsi vivo con omaggi alla ragazza che lo rifiuta, proposte di affari al padre ed eventuale futuro suocero che, al contrario, in questo matrimonio vede la sua resurrezione.
È una situazione parecchio complicata, che l’ostinazione a negarsi di Gitta, l’invadenza del pretendente, l’ira del suocero mancato, e soprattutto la presenza del vero ostacolo alle nozze, vale a dire Binyamin, rendono incandescente. Lerner, dunque, abbandona la casa. È di nuovo un disertore, un uomo solo, nel mezzo di una città indescrivibile: profughi ebrei ammucchiati sui carri, sensali ebrei alla disperata ricerca di un abboccamento con un ufficiale russo, ambulanze stipate di moribondi e feriti, operai a torso nudo, odore di sangue, di catrame bollente. Poco più avanti: «Automobili cariche di ufficiali e donnine allegre che ogni tanto perdevano una piuma di struzzo, carrozze decorate con fiori e nastri di raso bianco» dirette a un ricevimento di nozze. Ma i tedeschi avanzano, sono alle porte.
E arrivano finalmente. I polacchi li guardano stupiti, con quei loro elmetti con il chiodo, e dicono: come sono piccoli i tedeschi. Ora, il grande ponte è stato distrutto e bisogna rimetterlo in piedi. Lerner si presenta e chiede di essere assunto. La sua baracca sembra la Torre di Babele: ci sono pericolosi criminali lasciati dai russi in ritirata, ebrei timorati di Dio ridotti pelle e ossa, minatori corpulenti, effeminati rampolli della nobiltà terriera, prigionieri di guerra, esiliati rispediti indietro dalla Siberia per combattere, contadini russi colmi della loro rassegnazione secolare. Intanto, è arrivato l’inverno: venti sferzanti portano i primi fiocchi di neve, gonfiano le onde scure del fiume, ghiacciano la melma nella quale questa moltitudine di derelitti trascina i tronchi, i propri corpi estenuati, le pietre, le catene. E la notte, nelle baracche, è un inferno: litigi, botte, ferite.
Solo gli ebrei ortodossi, gli hassidim che hanno conservato i loro capelli lunghi, riescono a mantenere intatta la propria dignità umana: lavorano pur essendo incapaci, subiscono gli insulti senza protestare, rifiutano di ribellarsi, la notte — una volta Binyamin se ne accorge — si riuniscono davanti al muro di legno della baracca e insieme, a bassa voce, cantano le loro dolci preghiere. Quella, dopo la notte di luna in casa di Reb Baruch Yosef, è la seconda e ultima oasi di quiete delle vicende che col loro incalzare travolgono ogni personaggio, ogni evento, ogni barriera verso un futuro cupo e ignoto. Ci sarà una rivolta.
Lerner fuggirà e rincontrerà Gitta e nella casa di una benefattrice ebrea che alle pareti ha i santini di Cristo, torneranno ad amarsi. Si separeranno. Di nuovo si incontreranno e seguiranno un altro benefattore ebreo, che con la guerra ha guadagnato milioni, nelle sue terre per ricostituire una comunità di lavoro. Scoppierà il tifo. Gli ospedali si riempiranno di malati e di medici valorosi che non hanno nulla per curarli. I pidocchi nidificano sulle teste dei ragazzini. Le ragazze vengono stuprate dagli ufficiali tedeschi. Grossi ratti rubano gli ultimi chicchi di grano rimasti negli interstizi dei granai. Una donna senza gambe rimane incinta. Tutti sono contro tutti. Gli ufficiali tedeschi, la notte dell’ultimo dell’anno, fanno venire dieci prostitute che ballano nude e si scatena prima un’orgia, poi una seconda rivolta.
La guerra continua. Dal fango emergono cadaveri seppelliti in superficie che devono essere seppelliti più dentro la terra. Nei prati si allungano cimiteri immensi con le croci cristiane, le mezzelune, le lapidi ebree. L’umanità è lontana, sparita, perché gli uomini come tali non si riconoscono più, quando i giornali comunicano che a Pietroburgo c’è la rivoluzione. Allora Lerner va a Pietroburgo. Non si può dire che è pieno di speranza: va a Pietroburgo, sospinto dal movimento inconsapevole che lo sovrasta, e sovrasta chiunque, in questi disperati momenti, in questa sterminata regione del dolore che dall’Europa centrale va fino a Mosca e alle steppe. E a Pietroburgo, con l’assalto al Palazzo d’Inverno, si conclude il grandioso «romanzo del movimento», che non ha dato e non poteva dare tregua al lettore, e adesso sembra un gigantesco quadro futurista, con torri, elmetti, cannoni, e gli uomini, fermati per sempre nell’acciaio.
Giorgio Montefoschi - Corriere della Sera