La realpolitik di Bibi Netanyahu 28/06/2016
Autore: Ugo Volli

La realpolitik di Bibi Netanyahu
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

Cari Amici,

Abbiamo la fortuna di vivere in tempi interessanti, ma non troppo; turbolenti, ma non eccessivamente. La guerra è assente in Europa (a parte alcuni episodi terribili ma minori, come la dissoluzione della Jugoslavia) da settant’anni buoni; gli Stati Uniti hanno avuto il loro Vietnam quasi cinquant’anni fa e da allora gli episodi militari hanno colpito solo marginalmente la popolazione civile.
Le crisi economiche che ci hanno colpito più volte sono state tutto sommato lievi, per esempio a confronto del ‘29; le dittature fasciste e comuniste sono implose senza far molta resistenza in Spagna e Portogallo come in Unione Sovietica e nelle sue colonie europee.

Anche Israele, che ha vissuto una vita assai più dura, dopo le disastrose guerre del Libano e l’ondata terrorista del 2000-2002 conosce da una quindicina d’anni un certo sollievo: il terrorismo è “a bassa intensità” e le operazioni militari provocate da Hamas si sono concluse con qualche decina di vittime da parte israeliane - sempre troppe ma non tali da minacciare la vita del paese.
Questa condizione fortunata rischia di sembrare uno stato garantito, ma non lo è.



Prendiamo il caso di Israele: abbiamo appena letto illustri generali e politici di
opposizione dichiarare che in questo momento non vi è “pericolo esistenziale” per lo stato ebraico e questo è vero se intendiamo che è assai improbabile svegliarsi domattina dovendo far fronte a un assalto che rischi di distruggere il paese e il popolo ebraico.
Ma naturalmente questo non basta, perché dopo domani c’è un futuro in cui i pericoli sono potenzialmente molto più grandi. E poi perché i pericoli mortali non si affrontano quando sono già davvero “esistenziali”, perché allora è troppo tardi, ma vanno prevenuti con molto anticipo. Per far questo una cosa è necessaria innanzitutto: essere realisti, non confondere i desideri con la realtà, non farsi accecare da gusti e disgusti.

E’ vero che Ben Gurion disse che in Israele chi non crede nei miracoli non è realista, ma - si parva licet... - all’inizio della fuga dall’Egitto, quando tutto il popolo è terrorizzato dall’arrivo dell’esercito del Faraone, sono bloccati dal mare davanti e Mosè stesso esita e invoca aiuto divino, dall’alto gli viene risposto (Esodo 14: 15) “Perchè gridi a me? Ordina ai figli di Israele di partire”, cioè nella spiegazione di Rashi “Non è questo il momento di dilungarsi in preghiere, giacché Israele è in strettezze”; in altri termini quando si è in pericolo è meglio darsi da fare e non aspettare miracoli - che poi nella Bibbia arrivano, eccome; ma solo dopo che gli ebrei si sono decisi a muoversi.

Un pericolo sta nell’idea che in tempi interessanti si possa fare quel che si trova più simpatico o che ti dicono essere più elegante o morale. Un buffo esempio di questo atteggiamento è uscito in un sondaggio appena pubblicato, dove si dice che gli israeliani, interrogati sulle elezioni americane, hanno espresso con la maggioranza di 57% a 13% la convinzione che Hillary Clinton farebbe più pressioni su Israele per fare concessioni al “processo di pace” e, con una percentuale minore ma significativa (37% contro 36%), hanno detto di pensare che l’elezione di Trump sarebbe nell’interesse di Israele più di quella di Clinton e (43% contro 34%) che Trump avrebbe migliori relazioni con Netanyahu di Clinton; ma poi, quando si tratta di esprimere la loro preferenza, dicono che voterebbero (42% contro 35%) per Clinton. (http://www.algemeiner.com/2016/06/23/poll-israelis-would-vote-for-clinton-over-trump-despite-seeing-the-mogul-as-better-for-israel/ )

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Bizzarro, no? Clinton è meno conveniente per me, ma voterei per lei... probabilmente perché fa più bella figura, è meno “impresentabile”.
Abbiamo tutti tentazioni del genere e buona parte dell’influsso politico dei media consiste nel suscitarcele, come si è visto nel caso di Brexit. Ma quelle del sondaggio sono indicazioni assai teoriche; le elezioni israeliane mostrano un pubblico che al momento buono diventa estremamente lucido e non si fa fregare dallo “snobismo di massa”. Ma soprattutto c’è il realismo del governo e in particolare di Netanyahu, che è riuscito finora a far sopravvivere Israele a sette anni e mezzo di governo degli Stati Uniti (cioè di quel che era stato fino ad allora da molto tempo il principale alleato e protettore di Israele) da parte di un nemico determinato e pericoloso come Obama.

Ancora restano sei mesi della sua presidenza, particolarmente pericolosi perché tecnicamente irresponsabili: i prezzi per le forzature di Obama non le pagherà lui, ma eventualmente solo la candidata democratica e il paese. Lo si è visto già con il rifiuto pratico di Obama di adempiere a una importante decisione della Corte Suprema sugli immigrati (http://www.politico.com/story/2016/06/obama-slams-supreme-court-immigration-decision-224728 ). Ma il più è fatto. Questo più è frutto di attivismo e spregiudicatezza. Nelle ultime settimane Netanyahu ha di nuovo visto Putin (la quarta volta in pochi mesi), ieri a Roma ha firmato la normalizzazione dei rapporti con la Turchia senza cedere sul punto fondamentale, il blocco di Gaza (e nel frattempo Erdogan ha posto le premesse per la riconciliazione con la Russia), poi ha incontrato di nuovo Kerry in teoria per parlare della riapertura delle trattative con l’Autorità Palestinese, ma probabilmente soprattutto per informarlo sulle novità.

Ben lungi dall’essere emarginato e isolato come volevano i palestinisti e i loro alleati, Israele fa una politica di movimento. L’accordo con la Turchia permetterà una maggiore vicinanza col blocco sunnita, cioè toglierà un blocco all’avvicinamento all’Arabia Saudita e tutto questo contribuisce ad allontanare proprio quei “pericoli esistenziali” di cui vi parlavo all’inizio: perché la Turchia può almeno in parte bloccare le aggressione di Hamas, Egitto e Israele contrastano insieme l’Isis nel Sinai, e con l’Arabia vi sono interazioni operative che non conosciamo, ma certo c’è in comune l’inimicizia con l’Iran e i suoi protetti di Hezbollah.
Certo, Erdogan non è un personaggio gradevole. Ma l’accordo con Israele, come quello con la Russia è per lui la presa d’atto di una sconfitta, non una vittoria. E non sono gradevoli né l’Arabia né gli altri interlocutori con cui Netanyahu tratta. Ma è la sua realpolitik a tenere sicuro Israele, non i piani deliranti sottoscritti da Herzog e dagli ex generali di sinistra, rimasti fermi al fallimentare spirito di Oslo e soprattyutto all’idea che la chiave della sicurezza di Israele sia una resa alle pretese palestiniste.

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Ugo Volli