Mein Kampf, Germani e Italia del dopoguerra 12/06/2016
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Gent.ma Sig.ra Nirenstein,
Ho letto attentamente il Suo articolo su IL GIORNALE di oggi, Domenica 12.06.2016 che mi è molto piaciuto (come sempre tutti i Suoi articoli, sia per lo stile da perfetta giornalista, sia per l’equilibrio, cosa non facile data l’attuale situazione in cui versa il mondo intero e in particolare il Suo Paese, il nobile Erez Israel).
Anch’io, alla notizia che IL GIORNALE avrebbe donato insieme a IL GIORNALE copia del tanto esecrato “capolavoro” (si fa per dire) dell’imbianchino di Monaco, sulle prime sono rimasto piuttosto perplesso. Ma poi, sia per il Suo articolo, anzi, soprattutto per questo, nonché per le spiegazioni del Direttore Sallusti, ho deciso di accettarlo.
A questo proposito – a conferma di quanto da Lei asserito – Le racconto (se può interessare) un particolare autobiografico. Non ho vissuto in prima persona quel doloroso periodo: non avevo ancora dieci anni quando finí la seconda guerra mondiale (in tempo però per vedere i cadaveri eccellenti di Piazza Loreto, dove ci aveva portati la mia maestra, accanita fascista repubblichina sino al 24 aprile). Ma alla fine degli anni Sessanta fino ai primi anni Settanta vissi in Germania occidentale, a Coburgo, nell’Alta Baviera, lavorando come traduttore e correttore di bozze presso una casa editrice di riviste tecniche. Comunque, nella casa dove abitavo, una di quelle tipiche case tedesche in legno, avevo libero accesso in tutti i locali, salvo ovviamente la stanza della mia Hauswirtin (padrona di casa). Una volta, in solaio, dove erano ammassati tanti vecchi libri tedeschi (sono un topo di biblioteca), venni attirato come una calamita dall’unica copia rimasta di quel libro, dato che gli Alleati, nel 1945, ne avevano ordinato la distruzione di tutte le copie: errore anche quello, perché qualche copia avrebbe dovuto rimanere come prova e testimonianza di quei fatti aberranti). Incuriosito, volli leggerne le prime pagine, per rendermi conto “in lingua originale” di come quelle “idee” erano espresse. Mi resi conto che nessun tedesco – non dico laureato, ma per lo meno con la maturità: al massimo con la licenza elementare, anzi “alimentare”, come diceva mio padre, l’aveva mai letto. Perché di tedesco non c’era assolutamente nulla: tutte frasi espresse in forma dialettale, come poteva farlo un “magutt” che non aveva studiato. Se l’avessero letto, non avrebbe avuto tutta quella valanga di voti che si ebbe nel 1933. La sera, poi, presi la mia Hauswirtin e le dissi: - Frau Bauer, ha mai letto questo libro? - Certo, ce lo facevano leggere alle “Parteiversammlungen” (riunioni di partito), a cui eravamo tutti obbligati, altrimenti avrei perso la “Praxis” (licenza d’esercizio della professione). - Si è mai accorta che di tedesco non c’è nulla? - Sí, ma ci spiegavano che si trattava di “dichterische Freiheiten” (licenze poetiche). Questo la dice lunga sulla malafede nazista. Non so cosa avrebbero pensato i vari Goethe, Schiller, Heine (a parte che come ebreo era stato bandito dalle scuole del “Reich”), lo stesso Hofmann von Fallersleben, l’autore – ironia della sorte – del testo dell’inno nazionale “Deutschland über alles”…). Mi scusi il lungo sproloquio e… lo sfogo.
AugurandoLe di continuare sempre a scrivere sul nostro GIORNALE, Le porgo i miei piú cordiali saluti.

Mario Salvatore Manca di VIllahermosa 

Il nostro commento era uscito ieri, quello di Fiamma Nirenstein, che condividiamo in pieno, oggi. La sua è una lunga lettera, che pubblichiamo quasi interamente, perchè richiama con una storia personale l'atmosfera tedesca e italiana del dopogeurra.

IC Redazione