Bibi Netanyahu: 10 anni da leader 03/05/2016
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Autore: Ugo Volli
Bibi Netanyahu: 10 anni da leader
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

A destra: Benjamin Netanyahu

Cari amici,

ho letto nei giorni scorsi sui giornali israeliani qualche commento sul decimo compleanno di governo di Benjamin Netanyahu. In effetti il primo ministro israeliano ha preso la guida del governo sette anni fa, il 31 marzo del 2009 poco dopo le elezioni in cui per un seggio il suo partito era rimasto dietro a Kadima, guidato da Tzipi Livni, ma a differenza di lei aveva una maggioranza parlamentare, che le ultime elezioni del 2015 hanno confermato. In precedenza era stato primo ministro dal 18 giugno 1996 al 18 maggio 1999. Sono tre anni (meno un mese) più sette anni (più un mese), esattamente dieci anni. Solo David Ben Gurion ha governato più a lungo nella storia di Israele.

E’ difficile naturalmente dare un giudizio semplice di un’attività di governo condotta in contesti molto diversi, con maggioranze di solito limitate e rissose, di fronte a problemi molteplici e molto gravi, spesso contro la volontà dei principali partner internazionali. Certamente Netanyahu suscita sentimenti molto forti, è amato dall’elettorato israeliano che gli affida una fiducia incomparabile con quella dei suoi avversari ed è odiatissimo dagli avversari politici e dai politici e dalla stampa occidentale. Un esempio recente di quest’odio, nell’interpretazione particolarmente velenosa della sinistra israeliana che collabora coi filopalestinesi lo trovate in questo articolo di un giornalista del quotidiano di sinistra Maariv Ben Caspit, pubblicato da Al Monitor, un giornale online che secondo Wikipedia “segue l’agenda dell’Iran e di Hezbollah” (https://en.wikipedia.org/wiki/Al-Monitor). Ecco l’articolo: http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2016/05/israel-germany-merkel-netanyahu-confrontation-palestine.html.

Questo del resto è un destino comune a molti primi ministri israeliani: basta pensare a quel che si disse di Sharon, di Begin e perfino di Rabin, che è diventato un santino della sinistra solo dopo la sua uccisione. Certamente Netanyahu è un grande tattico, un conoscitore profondo del sistema politico israeliano; è anche un ottimo amministratore che si è trovato a dover porre rimedio ai disastri economici e politici provocati dai suoi predecessori. Se Israele è lo stato prospero che conosciamo oggi, lo si deve anche alle sue politiche di liberalizzazione, condotte anche da ministro delle Finanze.

Ma Netanyahu è innanzitutto il politico che si è preso la responsabilità di assicurare la sicurezza israeliana in periodi in cui la minaccia militare non era imminente, ma prevaleva invece quella politica rappresentata dalla volontà dell’Occidente di ridimensionare Israele e di rafforzare il nemico più forte che lavora per la sua distruzione, cioè l’Iran. Bisogna ricordare che l’intero secondo ciclo della premiership di Netanyahu si è svolto finora sotto l’ombra della presidenza di Barack Obama, un chiaro nemico dello stato ebraico, e mentre l’Europa assumeva progressivamente la stessa posizione. Anche sul piano internazionale Netanyahu è un ottimo tattico; anche se ha perduto la battaglia contro il trattato che avvicina l’Iran insieme al riconoscimento internazionale del ruolo di potenza regionale e alla preparazione di sistemi d’armi nucleari, Netanyahu è riuscito a non far piegare Israele ai diktat neocoloniali della “comunità internazionale”, mantenendo l’integrità territoriale, la forza dell’esercito e quella economica. La sua abilità e la sua visione politica si vedono oggi nei primi risultati del tentativo di trovare altri partner oltre al tradizionale asse con l’Europa e gli Stati Uniti. Israele è oggi alleato sul piano economico con India e Cina, ha una stretta consultazione con la Russia di Putin, si intende nella lotta al terrorismo con Egitto e Arabia Saudita. Sono tutti stati che in teoria sul piano macropolitico sono avversari di Israele, sostenitori o protagonisti del fronte arabo. Ma sotto alle dichiarazioni ufficiali e perfino alle vergognose prese di posizione nelle sedi internazionali, vi è qualcosa di più di semplici contatti, vi sono azioni comuni spesso non visibili all’opinione pubblica.

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Essere un grande tattico vuol dire prendere posizioni che magari non piacciono, cedere su temi simbolici ma giudicati privi di rilevanza reale, allearsi con persone e nazioni che non si stimano né si amano, insomma essere molto spregiudicati. Netanyahu certamente lo è. Per esempio in questi giorni si parla molto di una sua ennesima offerta ai laburisti di entrare al governo in posti di grandissima responsabilità (ministero degli esteri, delega alle trattative coi palestinesi: http://www.haaretz.com/israel-news/1.713328), correndo il rischio di una uscita di Bennett e della destra del Likud. Herzog peraltro è in difficoltà, stretto da accuse di corruzione e rivolte interne al suo partito. E’ difficile dire se si tratti di un bluff per tener calma la destra del governo, di un tentativo di rabbonire per un po’ l’assalto internazionale a Israele, di una falsa notizia. Ma è comunque un buon esempio dell’abilità manovriera di Netanyahu, che è chiaramente molto consapevole delle debolezze sue e del paese che guida e si sforza con successo di schivare i colpi che gli arrivano, magari agendo in anticipo, e anche degli sgambetti che gli arrivano dal suo stesso campo e dall’apparato di governo. Bisogna ricordare per esempio che, secondo una notizia fatta trapelare da Barak, sono stati gli apparati militari e di sicurezza, che in Israele di fatto hanno una sfera piuttosto ampia di decisione autonoma, a far naufragare la decisione che Netanyahu e Barak stesso avevano preso cinque o sei anni fa, di distruggere con la forza gli impianti nucleari iraniani.

Più difficile dire qualcosa della strategia di Netanyahu. E’ chiaro che si tratta di un patriota israeliano che pensa innanzitutto alla sicurezza e alla prosperità del suo paese. E’ anche chiaro che Netanyahu è un realista, che non crede al mito della soluzione dei problemi di Israele con un accordo di pace con l’Autorità Palestinese o con un disimpegno unilaterale. Quel che è accaduto dopo gli accordi di Oslo, la ritirata dal Libano e da Gaza gli ha certamente insegnato scetticismo su queste iniziative, se ne avesse avuto bisogno. Netanyahu sa che la navigazione a vista è oggi la sola possibilità, che ogni progetto di “pace” in quella terra è una ricetta per la guerra e la distruzione.

Nella storia i capi contano, ma solo perché riflettono delle dinamiche più grandi e complessive. Netanyahu è l’uomo che incarna queste dinamiche per l’Israele degli ultimi vent’anni: pragmatismo, rifiuto dell’ideologia, voglia di vivere e di costruire, capacità di mediazione sono le sue virtù. Quelli che nel campo ebraico sognano “la luce delle nazioni” o la moralità assoluta non lo capiscono. Ma per sconfiggere l’antisemitismo montante che si focalizza contro Israele, per uscire dal ruolo di capro espiatorio per le presunte colpe storiche dell’Occidente e di oggetto sostitutivo per i rancori musulmani, la persona giusta è lui, con quell’aspetto assai borghese, nonostante il suo passato da eroe di guerra, quell’aria bonacciona che nasconde un temperamento spigoloso, quella grande capacità retorica, che copre la lucidità estrema di un leader abituato a guardare in faccia le tragedie.

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Ugo Volli


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