A destra: il seder di Pesach secondo Lele Luzzati
Cari amici,
questa sera al tramonto inizia la festa ebraica di Pesach, la Pasqua ebraica, che dura otto giorni. In questo periodo gli ebrei non mangiano ed evitano anche di possedere cibi lievitati o comunque derivanti da cereali (non solo il pane, ma dunque anche i vari tipi di pasta, la birra, la maggior parte dei dolci che non siano fatti con il pane azzimo). Certi gruppi ebraici evitano anche altri cibi che possono in qualche modo essere confusi coi cereali, come il riso o i legumi; ma non vi illustrerò qui le regole abbastanza complicate e rigorose dell’osservanza pasquale. La festa inizia con una celebrazione familiare, una cena che si ripete la prima e la seconda sera ed è detta “Seder”, cioè ordine o sequenza, perché essa è una straordinaria macchina pedagogica codificata dall’antichità in una serie ben precisa di atti rituali, racconti, canti, benedizioni, consumo di cibo, in cui si trasmette la memoria della liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto.
Nel calendario liturgico ebraico e anche nella storia di Israele, l’evento che si rievoca, vecchio di oltre trenta secoli, è assolutamente fondamentale. Non si tratta solo del primo dei molti momenti storici in cui gli ebrei furono oggetto di un tentativo consapevole e determinato di genocidio e riuscirono a sottrarsene, ma della vera e propria fondazione del popolo ebraico. Quando Giuseppe diventa viceré d’Egitto e accoglie i suoi fratelli e il suo vecchio padre Giacobbe in Egitto, si tratta solo di un clan familiare: i figli di Israele (che è un altro nome di Giacobbe). Quattrocento anni dopo, quel che si libera dall’Egitto non è un clan o una tribù, ma un popolo, per dimensione e identità. Lo racconta in tre versetti con la solita potente sintesi la Torah, dicendo che “i figli di Israele […] aumentarono moltissimo, divennero potenti e il paese fu pieno di loro. Allora si elevò sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: Vedete che il popolo di Israele è più numeroso e potente di noi. Orsù regoliamoci con scaltrezza nei suoi riguardi! [...]” Scaltrezza per lui voleva dire, come è noto, imposizione della schiavitù, infanticidio, genocidio. E’ a questa “scaltrezza” che gli ebrei sono sottratti dagli eventi che si ricordano in questa festa: le piaghe, la resistenza del Faraone, il sacrificio di un agnello fatto da ogni famiglia, l’uscita dall’Egitto così precipitosa da non permettere di far lievitare il pane, la sconfitta finale dell’esercito egiziano, lanciato all’inseguimento dei fuggitivi e miracolosamente sommerso da quel mare che si era aperto per far passare gli ebrei.
Ebrei celebrano Pesach in Ucraina (XIX secolo)
Naturalmente la Bibbia non è un libro di storia e non è importante discutere quanto questa narrazione corrisponda ai dati che ci restituisce l’archeologia, per esempio al conflitto fra gli egiziani e il popolo semitico degli hyksos verso il XV secolo o all’esistenza degli “habiru” di cui si parla nelle “lettere di Amarna” spedite dai feudatari di Canaan al Faraone un secolo dopo per lamentarsi di una nuova popolazione nomadica che faceva loro la guerra, o ancora alla celebre stele di Merenptah posteriore di altri due secoli, in cui un faraone si vanta di aver distrutto la stirpe di Israele. Su tutto questo vi è in questo periodo una bella mostra all’Israel Museum di Gerusalemme, che illustra criticamente l’antico predominio egiziano sulle terre che oggi sono Israele. Ma quel che conta per la memoria storica del popolo ebraico è la contrapposizione fra schiavitù ed esodo: avadim ayinu, “siamo stati schiavi”, come si dice nel Seder, la nostra identità collettiva si è formata nell’oppressione; la liberazione da essa è stato un lungo viaggio verso la terra di Israele e l’identità.
E’ chiaro che in questa vicenda il significato politico e nazionale si mescola con quello religioso, come del resto avviene in quasi tutte le feste ebraiche. Il fatto è che l’ebraismo non è una “religione” nel senso prevalente da quindici secoli nella cultura occidentale, che è naturalmente cristiano: l’ebraismo non è una fede individuale nel “mistero”, ma è la fedeltà a una forma di vita collettiva che per la sua stessa esistenza testimonia di un rapporto con la divinità. La rivelazione, “il dono della Torah” che è parte della liberazione dell’Egitto, non rivela misteri “assurdi” sulla divinità di cui aver fede, ma piuttosto prescrive per gli uomini le regole di una vita buona e giusta, di cui fa parte il rapporto con un luogo particolare che è destinato (nel testo biblico non solo “promesso” ma anche “donato”) agli ebrei: la terra di Israele e Gerusalemme. Vi è insomma un rapporto a tre fra popolo, terra e legge, che è il contenuto della prescrizione divina e per cui l’uscita dall’Egitto è la premessa. Questo si festeggia a Persach.
Tale dimensione politica è stata spesso letta in maniera molto parziale: come “rivoluzione sociale” (da Michael Walzer), o come “accoglienza” o addirittura sacrificio (molte letture cristiane vanno in questo senso); più completa è la lettura di chi vi vede il prototipo della “nascita di una nazione (Antony Smith). Ma il punto è un altro, lo si trova con grande chiarezza alla fine del Seder, quando i partecipanti dicono all’inizio: «Quest'anno siamo qui: l'anno venturo nella terra di Israele ; quest'anno schiavi, l'anno venturo liberi». E alla fine di nuovo: «L'anno venturo a Gerusalemme!» La storia che si racconta è quella di un popolo che cerca instancabilmente di liberarsi e vivere nel suo luogo secondo le regole che ha ricevuto. Instancabilmente, perché, come si dice nel Seder, in ogni generazione la prova dell’oppressione si rinnova e ognuno deve considerarsi personalmente coinvolto nell’impresa della liberazione dell’Egitto, per perpetuarla e rinnovarla. In effetti la “scaltrezza” del Faraone e il progetto genocida che ne viene si è ripetuto spesso. L’Egitto da cui uscire è stato il paese del Nilo, ma anche l’Assiria e Babilonia, Roma e l’oppressione dell’Europa cristiana, l’islam e il nazismo. Oggi l’Egitto del faraone è certamente rappresentato dalla volontà della “comunità internazionale” di distruggere lo stato ebraico, dall’antisemitismo ricorrente. E la liberazione è la difesa dell’identità e dell’integrità dello stato di Israele.
Ma gli ebrei sono ostinati “dalla dura cervice”, come si usa tradurre un’espressione che la Torah ripete spesso. Non si fanno intimidire, lottano per la loro libertà con i miracoli e con le mani, con le armi e con la cultura. Lottano per riprodurre quell’identità che ricevettero allora, quell’idea di vita giusta che è inscindibilmente legata con la terra di Israele e la Rivelazione. Anche la festa di Pesach, anche il Seder, sono episodi di questa lotta per continuare a uscire dall’Egitto, soprattutto per sapere che bisogna sempre cercare di farlo. Questo è l’augurio che io faccio ai miei lettori che si sentono parte di questa impresa millenaria: che la loro consapevolezza cresca, che il loro coraggio si rafforzi, che il sentimento della libertà come un bene da conquistare lottando si rischiari, che sia chiaro l’oggetto e la promessa futura di questa identità: leshanà habbà beierushalaim, l’anno venturo a Gerusalemme.
Ugo Volli