Cari amici,
Ogni viaggio disinteressato in Israele è un po’ un pellegrinaggio, anche se chi lo compie non se ne rende conto. L’idea stessa del pellegrinaggio viene alla cultura occidentale da qui, dalla regola biblica che obbligava tutti gli ebrei a visitare il Tempio per le tre feste di Pesach, Shavuot e Sukkoth (cioè nel linguaggio italiano influenzato dalla tradizione cristiana: Pasqua, Pentecoste e Festa dei Tabernacoli). Per far questo gli ebrei dovevano salire a Gerusalemme e poi ancora salire dalla città al Tempio. E “salita” si definisce ancora oggi in ebraico il viaggio in Israele, più propriamente quand’è un’immigrazione definitiva, ma anche quand’è solo una visita come quella di Informazione Corretta, che ho accompagnato la settimana scorsa.
Se l’arrivo in Israele è una salita, la partenza è una discesa, e questo è letteralmente vero quando si viene dagli ottocento metri di Gerusalemme verso l’aeroporto nella pianura marittima vicino a Tel Aviv. Ma la salita è anche una metafora, fin dall’antichità esprime anche un cambiamento di stato d’animo, come si può definire se si ha pudore a parlare di livello spirituale. Anche con la comodità e i tempi veloci dei mezzi moderni, “salire” a Gerusalemme fa percepire al viaggiatore sensibile (magari a quello che ci venga da lontano e piuttosto raramente, non ai pendolari che affollano l’autostrada) un cambiamento esistenziale, uno scarto di vita. Lo si può avvertire come pienezza e gioia, o come inquietudine e messa in questione; ma certamente è intensità.
Questo peculiare sentimento del viaggio è fondato, anche per chi non ne ha una percezione religiosa, sul piano storico-culturale. Dalla storia di Abramo (invitato ad andare “per se stesso” verso “il paese che ti indicherò” e che gli verrà “promesso” e poi a salire su un monte che è tradizionalmente identificato con Gerusalemme per la terribile prova del quasi-sacrificio di Isacco), a Mosè, dall’esilio babilonese alla bimillenaria vicenda della dispersione del popolo ebraico dopo la conquista romana e la distruzione del Tempio, per finire con l’ultimo secolo e mezzo del sionismo, la terra di Israele segna la direzione del viaggio di ritorno alla propria autentica identità, o almeno del suo desiderio continuamente ribadito. Forse non è un caso che direzione in molte lingue si dica anche “senso”, cioè che il senso sia anche un orientamento spaziale. E’ venuto di moda negli ultimi tempi sostenere con Heschel che l’ebraismo si basi sulla sacralizzazione del tempo, invece che dello spazio, e questo è in parte certamente vero; ma è vero anche che non c’è un altro popolo al mondo che abbia serbato per millenni, al di là di ogni possibile dimensione di ragionevolezza politica, una tale polarizzazione nello spazio. Verso Israele, verso Gerusalemme, verso il Tempio si prega, ci si fa seppellire, si indirizza la speranza in tutte le principali occasioni della vita.
"L'anno prossimo a Gerusalemme"
Per quanto laico sia oggi Israele, per quanto moderne e prospere le sue città, apparentemente lontane dalla dimensione del sacro, questo rapporto fra un popolo e la terra di cui non era originario ma che gli fu promessa e donata tre o quattro millenni fa e che poi ha conquistata, difesa, perduta, ricercata, riconquistata, riedificata non è un rapporto né ovvio né semplicemente razionale. Proprio perché essa è stata così spesso e così a lungo perduta “la terra” (così chiamata per antonomasia) è un fine, una condizione di esistenza, la premessa per un ethos politico-sociale. Come Israele non è stato quasi mai un “popolo naturale” - il semplice insieme delle persone che vivevano in un certo territorio -, ma sempre un “popolo deciso” - l’ unità di coloro che volevano essere ciò che erano e non dimenticare la loro origine -, così anche la terra di Israele è sempre il frutto di una costruzione, il risultato di un amore che cambia la natura e la feconda, a costo del lavoro più impegnato, di regole condivise e della più libera creatività.
Il legame fra gli ebrei e Israele è metapolitico, è insieme una scelta e una condizione di esistenza. Questo sente chi “scende” da Gerusalemme sulla pianura e poi con un aereo “scende” in Italia, se sa ascoltare la sua esperienza. E’ una dimensione mitica, certamente, al di là delle razionalità politiche, economiche o strategiche che caratterizzano il comportamento dello Stato di Israele, ma bisogna capire che esso le fonda e le motiva, assai più che l’inverso. E' che lo Stato di Israele vive e prospera e ostinatamente non rinuncia a se stesso per quella stessa ragione che ha difeso la vita degli ebrei per tre millenni, quel richiamo a “salire” che riecheggerà fra due settimane nella cerimonia famigliare della Pasqua ebraica, conclusa da sempre e dappertutto con la promessa: “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Per questo “scendere”, per chi sta fuori, è tornare alla normalità, ma anche sentire una mancanza e farsi la promessa di un ritorno.
Ugo Volli