A destra: il lungomare di Tel Aviv
Cari amici,
nelle condizioni logistiche di un viaggio di gruppo come quello di Informazione Corretta che vi sto raccontando per così dire in diretta, devo scrivervi con un certo anticipo, perché la giornata è piena di visite e resta tempo solo di notte. Dunque vi do una prima impressione qualche ora solo dopo l’arrivo a Tel Aviv. E questa impressione è la solita, una città vivacissima, dal traffico reso ancora più caotico per i lavori della metropolitana leggera, una skyline di grattacieli luminosa che sembra arricchirsi di mese in mese e di cui in Europa è difficile trovare il confronto, i negozi sempre più eleganti, la gente che corre per il lungomare, si affolla nei locali, mescola un’eleganza ormai piuttosto diffusa con la tenuta casual di sempre. Ristorantini, gallerie d’arte, negozi di vini e sigari (oltre che di tutto il resto), musei e centri culturali diffusi per i dodici chilometri della sua lunghezza… frenesia di lavoro, di divertimento, di sport… dimensione internazionale evidente… Insomma la solita Tel Aviv, solo sempre un po’ di più. Io non sono sicuro che questa ebbrezza e soprattutto la sua evidente ispirazione americana sia l’ideale per me, non è proprio quel che io cerco venendo in Israele. E’ l’anima modernista, sperimentale, salutista, capitalista dell’ebraismo assimilato che si esprime qui al suo meglio. E’ una strada che mi convince solo in parte, soprattutto sul piano politico e culturale. Ma è evidente che funziona, che piace a chi ci vive e a chi ci viene, che cresce su se stessa, che ha radici vere in una popolazione liberissima e attivissima, che produce ricchezza e non la sperpera come fanno le città dei paesi del Golfo.
Tel Aviv, cuore economico di Israele
Ma lo scopo di queste cartoline non è di discettare sulle anime del popolo ebraico e sui loro destini. Sono legate all’attualità, per necessità e vocazione. E allora, in termini di attualità devo dire che questa crescita continua, questo spirito quasi olimpico (nel senso di citius altius fortius, più veloce, più forte, più alto) non è affatto offuscato dalla cronaca di quella che alcuni, esagerando molto, chiamano “sollevazione palestinese”. Il numero degli attentati sta diminuendo, per fortuna, dai 650 di ottobre si è passati al centinanio del mese scorso, ma ancora ieri (per voi che leggete) ce ne sono stati due, uno non lontano da Tel Aviv e uno nel solito Gush Etzion, il gruppo di cittadine che sono state fondate negli anni Venti su terra regolarmente comprata sotto il mandato inglese, distrutte quattro volte dagli arabi e ancora oggi risente del loro odio cieco e furioso. Ma a girare per Tel Aviv nessuno se ne accorgerebbe. Ci sono stati anche degli attentati in città, ma nessuno fa mostra di ricordarsene. Non c’è confronto con la stagione della “seconda intifada”, quando davanti a tutti i locali pubblici e i centri commerciali c’erano guardie armate e metal detector e si leggeva la paura negli occhi della gente. Oggi tutti sono tranquilli, o meglio frenetici come sempre; non si vedono misure di sicurezza evidenti (anche se magari ce ne sono di nascoste). Insomma business as usual - e forse più del solito.
E’ il segno di un doppio fallimento. Il primo è quello dei terroristi e di chi li manda, che in sei mesi di lavoro sporco sono riusciti sì ad ammazzare una trentina di persone, ma non a turbare la vita pubblica del paese. E la seconda è quella dell’informazione, anche della nostra informazione, che ha dato corpo al senso comunicativo del progetto terrorista, diffondendo i segnali d’allarme che essi cercano di lanciare. L’aeroporto Ben Gurion è pieno come sempre, ci sono decine di varchi per il controllo dei passaporti e ormai l’elettronica rende molto veloce il controllo, ma la coda è di venti minuti; dunque i turisti arrivano e con loro gli uomini di affari, i visitatori familiari, un po’ meno a quanto si dice i pellegrini cristiani (il che colpisce soprattutto le località arabe predilette dalle guide ecclesiastiche). Ma l’idea che si associa in questo momento a Israele è quella di un paese in emergenza, come fosse se non la Siria o l’Iraq o la Libia, almeno il Libano e l’Egitto, che pongono serissimi problemi di sicurezza. E invece, come vi ho raccontato, le cose non stanno così. Un’altra prova, poco politicizzata e dunque più convincente, della scarsa capacità dei media di dare un’immagine credibile di questo paese.
Ugo Volli