La 'Giornata della Terra', lo specchio che riflette il miraggio fallito di uno Stato palestinese 03/04/2016
Analisi di Mordechai Kedar
Autore: Mordechai Kedar

La 'Giornata della Terra', lo specchio che riflette il miraggio fallito di uno Stato palestinese
Analisi di Mordechai Kedar

(Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz)

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Una locandina che pubblicizza la "Giornata della terra" palestinese: Israele è cancellata dalla mappa.

Le manifestazioni e le proteste che il 30 marzo di ogni anno si svolgono in Israele sono una copertura per nascondere il triste fallimento di coloro che chiamano a raccolta i ‘palestinesi’ per formare un’entità nazionale collettiva. Queste righe sono state scritte alla vigilia del 30 marzo, la “Giornata della Terra”, come è chiamato sul calendario degli arabi che hanno la cittadinanza israeliana, e anche dagli arabi che vivono a Gaza, Giudea e Samaria, in memoria di sei loro fratelli uccisi durante le violente manifestazioni scoppiate in quella data di quarant'anni fa, quando il governo israeliano annesse delle terre in Galilea.

La “Giornata della Terra” viene commemorata ogni anno con eventi pubblici, ma la stessa annessione della terra è diventata ormai un vago ricordo e le manifestazioni oggi sono principalmente l’occasione per enunciare un lungo elenco di accuse allo Stato di Israele. La verità, tuttavia, è che questo giorno rappresenta il nocciolo della tragedia palestinese, la mancanza di un obiettivo comune a tutti coloro che sono chiamati “palestinesi”. Ecco i quattro gruppi principali di arabi palestinesi. Nel primo confluiscono gli arabi che vivono a Gaza e nei cosiddetti “Territori occupati” di Giudea e Samaria, che hanno fallito nel definire il loro obiettivo comune, e quindi non hanno alcuna possibilità di realizzarlo. Il loro obiettivo è quello di cacciare Israele dalle terre che essa aveva liberato dall’occupazione giordana ed egiziana nel 1967 e istituirvi uno Stato, nonostante la mancanza di contiguità territoriale tra Gaza da un lato e la Giudea e Samaria (la “West Bank”) dall’altro. O forse il loro obiettivo è quello di cancellare lo Stato ebraico, “l’occupazione” del 1948, riconosciuta dalle Nazioni Unite, al fine di stabilire lo Stato di Palestina su tutto il territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo? Come possono riunire le due principali forze politiche, OLP e Hamas, nove anni dopo che Hamas ha istituito uno Stato nella Striscia di Gaza e che non ha alcuna intenzione di rinunciare ai suoi vantaggi politici, anche se formalmente Gaza è governata dall’OLP?

La mancanza di risposte a queste domande dimostra la mancanza di una coscienza collettiva, l’incapacità tra gli abitanti di queste zone di sentirsi un vero popolo, e paralizza ogni tentativo di fare progressi nei negoziati di pace con Israele. Il secondo gruppo è composto dagli arabi che risiedono nelle città e nei villaggi a Nord della Giordania, che si definiscono “palestinesi” solo perché non vogliono essere chiamati “giordani”. Il perchè risale a quando, nel 1921, la Gran Bretagna aveva chiamato “Palestina” la zona in cui si erano costituiti prima gli Emirati della Transgiordania e poi il Regno Hascemita di Giordania. Quest’ultimo però era costituito da una coalizione di tribù beduine guidate dall’emiro Abdullah, figlio di Sharif Hussein della Mecca. Gli abitanti delle città e villaggi del Nord non volevano però identificarsi con i beduini, percepiti inferiori da un punto di vista culturale, e così si rifiutarono di essere chiamati “giordani” e continuano a definirsi “palestinesi”. Sono cittadini giordani e non vogliono appartenere a nessun altro Stato, nemmeno ad uno “Stato palestinese” se mai dovesse diventare una realtà.

Poi abbiamo il terzo gruppo, i cittadini arabi di Israele, che si definiscono “arabi interni” (nel senso che vivono all’interno di Israele da prima del 1967) o “arabi del 1948” per non dover riconoscere che sono cittadini israeliani. Invece sono cittadini a pieno titolo dello Stato democratico e liberale di Israele, con gli stessi identici diritti civili di cui godono i cittadini ebrei. Si distinguono in base alla religione, alcuni sono musulmani, altri sono drusi, cristiani, alawiti o ahmadi, ed è questa la ragione per cui non si sentono un popolo unito e coeso. Sono divisi su base tribale ( “hamoulot”), e l’amministrazione delle loro città e villaggi riflette la cultura del “clan”profondamente radicata in tutto il Medio Oriente. Nonostante il fatto che alcuni si definiscano “palestinesi”, non vogliono rinunciare alla loro cittadinanza israeliana e non hanno alcun desiderio di appartenere ad uno Stato palestinese, se mai dovesse sorgere.


Un altro manifesto che invita alla "Giornata della Terra" attraverso la distruzione di Israele

Negli ultimi cinque anni, assistendo alla catastrofe che ha colpito il mondo arabo durante la cosiddetta “Primavera araba”, hanno preso coscienza del fatto che per loro Israele resta l’opzione preferita, non perché l’amino , ma perché lì la vita è tranquilla e sicura, a differenza di tutti i Paesi arabi, ad eccezione degli Emirati del Golfo Persico. Un numero considerevole fatica a vivere nella strana situazione che rende Israele preferibile ai Paesi arabi, e a questa frustrazione viene dato uno sbocco quando delegittimano lo Stato ebraico, come si può vedere nel recente comportamento e nelle dichiarazioni estreme di alcuni parlamentari arabi israeliani. Questo ci porta al quarto gruppo, i “profughi” che dal 1948 vivono nei campi profughi in Libano, Siria, Giordania, Giudea, Samaria e Gaza. Questo gruppo è diviso a seconda dei Paesi e delle regioni in cui si trovano i campi. Vengono chiamati “profughi palestinesi”, perché fuggirono dalle battaglie in corso nelle aree del Mandato Britannico ad ovest del Giordano fino al 14 maggio 1948, e dopo il 15 maggio dello stesso anno, data della creazione dello Stato di Israele, soprattutto a causa dell’invasione su larga scala degli eserciti arabi il 16 maggio.

La maggior parte di loro non erano residenti nativi. Già nella prima metà del XX secolo molti immigranti erano affluiti da tutto il Medio Oriente in cerca di lavoro, creato dalla popolazione ebraica in crescita. Quando fuggirono dalla guerra, la Lega Araba decise di non assorbirli nei Paesi dove si erano rifugiatiti, ma di tenerli in campi, in modo da poter sempre chiedere il loro ritorno in Israele, con lo scopo di distruggere lo Stato ebraico demograficamente. Quel che è strano è che anche in quello che viene chiamato il territorio “palestinese”, ci sono campi di “rifugiati” dalla “Palestina”: la questione che si pone è, ovviamente, come una persona possa essere un rifugiato nella sua stessa terra. La risposta sta nella cultura tribale, in quanto queste persone sono considerate estranee da un’altra tribù che aveva abbandonato le proprie case per un motivo qualsiasi e che si era stabilita nei pressi di tribù locali, prendendo dimora nella zona.

Le persone del posto li considera “diversi da noi”, anche se sono dei “palestinesi” come loro. Questa è la riprova della mancanza di coscienza collettiva tra i “palestinesi”. Fino al 2011, circa 400.000 “profughi palestinesi” vivevano in diversi campi in Siria. Questi sono stati distrutti durante la guerra civile, per cui la maggior parte degli abitanti di questi campi sono stati dispersi in Giordania, Libano, Europa e Stati Uniti. La legge libanese contiene un lungo elenco di occupazioni vietate a questi profughi per impedire loro di entrare a far parte del tessuto sociale del paese oppresso dalla crisi. In Giordania hanno ottenuto la cittadinanza, ma sono considerati cittadini di terza classe. In altre parole, questo quarto gruppo conosciuto come “profughi palestinesi” non è in possesso di un obiettivo comune, tranne il desiderio di tornare nello Stato di Israele, non in uno Stato palestinese se questo venisse approvato, ma in uno Stato che non è arabo né musulmano o “palestinese”. Neppure questo gruppo ha un “sogno palestinese”.

La maggior parte dei “palestinesi” che migrarono in Europa, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, si sono stabiliti in quelle terre e hanno perso la loro identità palestinese e il loro senso di appartenenza al Medio Oriente in generale. Pochissimi vorrebbero ancora tornare in “Palestina”, cioè nello Stato di Israele. Tutto questo ci porta alla conclusione che il sogno palestinese di raggiungere una coscienza collettiva è fallito, dato che le agende discordanti dei vari gruppi chiamati “palestinesi”, rendono impossibile che un soggetto politico possa mai essere accettato da tutti. Nella “ Giornata della Terra” in realtà stanno piangendo il loro fallimento collettivo di presentare un piano unito, un unico obiettivo, tutto quel che consentirebbe la costruzione di un futuro realizzabile, definito e comune.

L’abisso che separa il “sogno palestinese” dalla realtà divisa e sgretolata, è ciò che li fa uscire in strada per manifestare. Stanno protestando proprio contro il successo incredibile dell’avventura sionista del popolo ebraico, quella di un popolo composto di rifugiati provenienti da tutto il mondo, e che ce l’ha fatta, nonostante che alcuni di essi provenissero dai crematori di un’Europa in rovina, nonostante le differenze tra loro e nonostante le guerre che hanno affrontato. Il popolo ebraico ha costruito uno Stato fiorente, una sana democrazia con una prospera economia e questo successo suscita gelosia che genera odio da parte dei palestinesi e da parte di tutto il mondo arabo. Israele è riuscito esattamente dove i palestinesi hanno fallito, la sua esistenza ne è lo specchio, per questo lo odiano e vogliono eliminarlo, questo è il motivo per cui combattono e protestano contro Israele in Europa, negli Stati Uniti, nel mondo arabo e persino all’interno dello Stato ebraico. Ciò è particolarmente evidente il 30 marzo, la “Giornata della Terra” che liquida il sogno coltivato nel corso degli anni, un sogno la cui realizzazione diventa ogni giorno sempre più lontana a causa del fallimento collettivo di creare una “nazione palestinese” con un unico obiettivo comune.

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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