A destra: il Ghetto di Venezia secondo Emanuele Luzzati
Cari amici,
che ne dite di festeggiare l’anniversario del carcere di Regina Coeli? Risale al XVII secolo, ma è stato convertito all’uso attuale nel 1881, dunque 135 anni fa, che fa quasi cifra tonda. O l’Ucciardone di Palermo? Fu progettato all’inizio del XIX secolo quindi come disegno ha circa 200 anni, anche se fu realizzato dopo. E le Nuove di Torino? Carcere inaugurato nel 1870, ma il cantiere fu aperto poco più di 150 anni fa. Potremmo invitare un po’ di detenuti, magari anche quelli certamente innocenti che ci sono passati, come i partigiani, e fare una grande festa inneggiando alla bellezza del luogo e alla sua simpatia…
Mi chiedete se sono impazzito? Be’, è esattamente quello che sta succedendo col Ghetto di Venezia, che per chi non lo sapesse compie 500 anni oggi, essendo stato istituito da un decreto della Serenissima il 29 marzo del 1516. Chi di voi segue le cronache dell’ebraismo, avrà visto che vi è stato un profluvio di festeggiamenti, memorie, ricordi. Ma il Ghetto, come tutti i Ghetti, a Roma e a Torino, a Trieste e a Bologna e in tutto il mondo, è stato un carcere. Il carcere per un popolo, cui un ebreo era condannato a vita dalla nascita. Con in più l’aggravante delle persecuzioni meschine, le prediche obbligatorie dei frati che cercavano di convertire i più disgraziati, le perquisizioni, i roghi dei libri… Luoghi di miseria, di fame, di volontaria degradazione di un gruppo umano. Non a caso quando i nazisti decisero di concentrare gli ebrei in quartieri chiusi delle città per sfruttarli e isolarli prima di eliminarli, a Lodz, a Varsavia e altrove, questi recinti che a volte richiudevano centinaia di migliaia di persone furono chiamati ghetti. Certo, nei secoli di reclusione gli ebrei seppero sviluppare anche cultura, religione, tesori di sapere e di umanità. Ma questo avvenne nonostante le gabbie del ghetto, non a causa loro, come si vede confrontando quel che gli ebrei avevano fatto prima e seppero fare dopo.
Il Ghetto di Venezia
E però non vi sono le celebrazioni ufficiali, i festeggiamenti, la retorica ufficiale. Vi è anche il solito buonismo diffuso. Ho letto per esempio su un’intervista pubblicata sul Secolo XIX di Genova (storica rivale di Venezia…) queste dichiarazioni attribuite a Shaul Bassi, definito “coordinatore scientifico del Comitato per i Cinquecento anni del Ghetto”: “All'epoca Venezia era una capitale europea, una metropoli aperta, tollerante, ricca di fermenti, una 'terra promessa' per le tante popolazioni in fuga da guerre e persecuzioni, compresi gli ebrei che là vivranno, almeno nei primi due secoli, una stagione di grande crescita intellettuale, religiosa ed economica. E anzi proprio la separazione dal resto della città servì, in un certo senso, da stimolo. Così i cancelli, sprangati durante la notte e sorvegliati da custodi cristiani che percorrevano in barca i canali circostanti, diventarono il confine da superare, idealmente, con le arti, con l'ingegno, con il sapere. Ebrei e cristiani cominciarono a collaborare in ogni campo; il ghetto permetteva un alto grado di interazione e la chiusura sia per gli uni sia per gli altri diventò sinonimo di protezione e fu quindi positiva.” Bassi è uno studioso di letteratura, un anglista, non uno storico politico o sociale. L’idea che un ghetto con portoni sprangati tutte le notti e guardie tutt’intorno per sorvegliarlo fosse positivo perché proteggeva i cristiani dagli ebrei (ma anche gli ebrei dai cristiani; come se si dicesse che le gabbie dello zoo proteggono le giraffe dai cacciatori...) mi sembra davvero un po’ bizzarra e preferisco pensare che sia un abbellimento dell’intervistatrice. Ma in generale, tutto il tono delle celebrazioni e quindi anche dell’intervista mira alla giustificazione, propone l’idea che il ghetto fosse un “modello di convivenza”. La Venezia del Cinque e Seicento non era un luogo così tollerante, basta pensare alle sorti di Paolo Sarpi e Giordano Bruno; certo non era l’inferno spagnolo o portoghese, ma neppure un luogo relativamente libero come lo furono Amsterdam o Livorno. Per fare un esempio, dopo il decreto del 12 agosto 1553 in cui papa Giulio II ordinò la distruzione del Talmud, a Roma fu fatto un rogo dei libri ebraici il 9 settembre, ma Venezia seguì subito: 21 ottobre successivo, un sabato, per ordine del Consiglio dei Dieci fu fatto “un bel rogo” di tutti i libri di argomento talmudico in Piazza San Marco, mentre altri libri ebraici furono bruciati nel 1568.
Riccardo Calimani
Insomma, non sono d’accordo. Il mezzo secolo del ghetto illustra il fatto che dopo il Medio Evo, via via avviandosi verso la modernità, la condizione degli ebrei in Europa non migliora, ma anzi tende a peggiorare. I roghi cattolici, non solo dei libri ma degli uomini bruciano più nel Cinquecento e nel Seicento che nei “secoli bui”; i ghetti fanno parte della stessa logica di persecuzione centralizzata, organizzata. Insomma, come dice il più significativo storico del Ghetto di Venezia, Riccardo Calimani, “ritengo che non ci sia nulla da celebrare […] II Ghetto di Venezia è stato un’esperienza dolorosa e credo che avrebbe dovuto essere ricordato con un livello di attenzione un po’ più basso e più maturo. Non c’era nessun bisogno di farla diventare una celebrazione. La nascita del Ghetto non é un problema ebraico, è un problema del mondo cristiano. Come per l’Inquisizione, il mondo cristiano dovrebbe domandarsi perché è stato fatto questo.” (http://www.kolot.it/2016/03/23/calimani-il-ghetto-di-venezia-non-si-celebra/).
Ugo Volli