La copertina
Anche Aharon Appelfeld, naturalmente, ha dovuto fare i conti con la celebre affermazione di Adorno, “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte è più possibile”; ma ha scelto di infrangere la proibizione. Ha scritto romanzi in cui racconta lo sbigottimento, lo sradicamento, la sperdutezza di donne e uomini strappati a una vita che sembrava tranquilla, ordinata, regolare, e gettati nell’orrore; e insieme, in ogni storia, ha ritratto almeno una persona, un gesto, un momento che non appartiene alle tenebre e riesce a salvare un barlume d’umanità. Nelle tre conferenze e nell’intervista raccolte in questo libretto ripercorre la propria vicenda e le ragioni che lo hanno spinto a scrivere.
Aharon Appelfeld
Non è stato facile. All’inizio gli scampati all’orrore preferivano tacere: “Era questo che volevamo: dormire, dormire per anni e anni, dimenticare noi stessi e rinascere. Imparammo così a mantenere il silenzio. Che cosa c’era da dire, in fondo? Persino a noi tutto cominciava a suonare fittizio, incredibile”. Ma il ricordo delle sofferenze patite premeva; comunicarono così a comparire i primi libri di memorie, le prime testimonianze. Anche i primi tentativi di Appelfeld sono un resoconto della propria esperienza. Ma “ne risultò la storia sentimentale, monocorde, di un bambino ebreo che vaga alla macchia, si nutre di piante e nella stagione più fredda trova rifugio fra persone del sottobosco sociale. Certo, quella era la mia infanzia: ma messa sulla pagina suonava bizzarra, poco convincente. Peggio ancora, sembrava inventata. La memoria, in cui credevo così fermamente, mi aveva ingannato”.
Perché “la memoria diventa una specie di intruglio in cui si mescolano cose fondamentali e altre irrilevanti, perciò ci vuole un elemento dinamico capace di agire e di darle le ali: e questo è solitamente quello che fa l’immaginazione. Il potere della fantasia creativa non sta infatti nell’intensità e nell’esagerazione; sta piuttosto nel dare un nuovo ordine ai fatti”. Così, paradossalmente, mentre il puro racconto di memoria suona inattendibile, è l’opera letteraria ad attingere la verità. Una verità che, come insegna tutta la tradizione ebraica, ha sempre a che fare con il singolo: “La letteratura deve per prima cosa obbedire a un imperativo pratico: deve occuparsi dell’individuo. Quando la gente mi domanda quale posto abbia l’arte in quell’universo di morte e di orrore, rilancio e chiedo: chi può mai redimere le paure, le sofferenze, le torture e le credenze nascoste, da quella tenebra? Che cosa riuscirebbe mai a estrarli da quel buio, a dare loro un poco di calore e di rispetto, se non l’arte?”.
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