Scorpion Dance
Shifra Horn
Fazi
I sopravvissuti alla Shoah sono un tasto dolente per Israele, dove a lungo è prevalsa la tesi della pur non amata Hanna Arendt secondo cui gli ebrei non avevano resistito al nazismo ma erano andati «docilmente» al macello. Nel giovane Stato nato sulle ceneri della civiltà occidentale e cresciuto tra le fiamme delle nuove minacce regionali difendersi è più di un diritto, è un dover essere, la convinzione di non poter mai contare su nessuno. Questa costante irrisolta dialettica tra storia e memoria è il terreno del nuovo romanzo dell’autrice israeliana Shifra Horn, Scorpion Dance, un minuetto d’amore e rimpianti che comincia con un’immagine forte di Gerusalemme, l’abitazione di due vecchie sopravvissute all’Olocausto contro cui i ragazzini tirano malignamente sassi. Nell’immagine successiva una delle due siede nello studio di un tatuatore esterrefatto, pretendendo che quello le ricalchi il numero tatuato sull’avambraccio.
La storia è ambientata su una specie di altalena che fa avanti e indietro tra quella guerra dei sei giorni del ‘67, quando il protagonista non ancora nato perde il padre, il presente in cui vive e il passato assoluto del terzo Reich, dove affondano le origini note e quelle rimosse.
Shifra Horn
Orion, un bibliotecario con la passione per i libri bruciati dai nazisti e la certezza che dove si bruciano i libri si bruceranno prima o poi anche le persone, è cresciuto con due donne, la svampita madre Aviva, che lo abbandona adolescente per trasferirsi in Australia con il nuovo marito, e la nonna Johanna, ex bellissima ostetrica tedesca emigrata in Israele dopo la guerra con il figlio di tre anni, il padre di Orion. Insieme ai tre, presenza simbolica come il grillo parlante di Pinocchio, c’è Sarah, il pappagallo, in realtà maschio, di proprietà del facoltoso arabo che abitava nella casa prima del 1948 e che un giorno verrà a riprenderselo salvo ripartire solo, accontentandosi di una manciata di terra del giardino di lillà, quando l’animale preferirà la nuova famiglia.
Per chi li ama, i romanzi non si raccontano, vanno letti distillando pagina dopo pagina. E quelle di Shifra Horn, ex corrispondente dall’estremo oriente per il quotidiano Maariv, riservano più di una storia nella storia, piccole matrioske annidiate nelle fughe avanti e indietro che ondeggiano come la danza dello scorpione da cui prende il titolo il libro.
Orion, abituato a vivere con le donne al punto da pensare a lungo che anche i maschi facciano pipì seduti, le ama e non le ama. Fascinoso, ne colleziona a decine, ma, dopo la dolorosa partenza della madre, resta fedele solo alla nonna.
Johanna ha un segreto e il nipote lo penetra poco a poco, il suo patrimonio genetico. Ha un segreto anche la giovane cantante d’opera berlinese di cui Orion s’innamora fatalmente fino a ribattezzarla basherte, il mio destino. E ne ha lui, più di un segreto custodito e negato che Orion rivelerà interamente solo al lettore.
Sullo sfondo c’è la storia d’Israele, la Guerra dei Sei giorni e quella del Kippur, la visita del presidente egiziano Sadat e le speranze di pace, la fatwa di Khomeini contro il libro di Salman Rushdie moltiplicata dai tg nazionali, il marchio della paura nei ragazzini che giocano a arabi contro ebrei. E, ovviamente, le piaghe della memoria impresse in Johanna, terrorizzata dai pigiami a strisce e dall’idea di tornare «laggiù», quella Germania di cui ha conservato solo le tazze di porcellana Roshental.
Leggendo i libri degli autori israeliani, anche quelli con meno riferimenti storici diretti, non si riesce mai a dimenticare davvero dove sono scritti. E Scorpion dance è profondamente immerso nella storia di Shifra Horn e del suo paese. Ma parla a tutti, intensamente. E a molti farà piangere.
Francesca Paci - La Stampa