Il Test
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari Amici,
oggi papa Francesco va in visita alla comunità ebraica di Roma. Nel momento in cui vi scrivo (sabato sera) non posso sapere che cosa dirà in sinagoga e che discorsi faranno il rabbino capo e gli altri esponenti dell'ebraismo romano che lo accoglieranno. Saranno parole importanti, ma quasi tutti gli elementi di valutazione di questo incontro sono già chiari.
La prima cosa da dire è che dal punto di vista ebraico si tratta di un fatto certamente positivo. E' la terza visita papale in trent'anni, da quella del 13 aprile 1986 di Giovanni Paolo II; e anche la terza in assoluto perché mai prima d'allora in venti secoli di convivenza un papa aveva ritenuto opportuno andare a trovare gli ebrei che aveva praticamente in casa.
Questa consuetudine, ricambiata in varie circostanze da visite ebraiche in Vaticano è un segno di buon vicinato e di normalizzazione di una minoranza che proprio dai vescovi di Roma aveva ricevuto molti torti; anche lasciando da parte il comportamento di Pio XII, non si contano i casi di libri bruciati, figli rapiti per convertirli, prediche imposte, leggi estremamente restrittive sui lavori e le abitazioni che gli ebrei potevano avere, prelievi forzosi di beni e danaro, conversioni forzate e poi mantenute a viva forza con la minaccia spesso realizzata del rogo per quanti mantenevano la loro intima appartenenza alla fede dei padri. Per non parlare infine di alcuni comportamenti stupidamente oltraggiosi che erano forzati al mondo ebraico come le sfilate in costumi indecorosi e le percosse in occasione dei carnevali e dell'incoronazione di nuovi papi. Insomma ci sono molti maltrattamenti da archiviare e questi incontri servono anche più delle dichiarazioni teologiche a sancirne l'abbandono.
Sul piano teologico, invece, c'è poco spazio per un cambiamento. Ebraismo e Cristianesimo hanno molto in comune: una stessa narrazione biblica (quello che la Chiesa chiama “Antico Testamento”, con alcuni concetti che ne seguono come creazione, rivelazione, libertà e responsabilità dell'uomo, benevolenza divina.
Nella ricezioni farisaica della Torah, che ha generato l'ebraismo medievale e moderno, ci sono anche altri temi come l'idea messianica, la resurrezione dei morti, l'immortalità dell'anima, il giudizio, l'aldilà che gli ebrei chiamano mondo a venire.
Ma naturalmente l'ebraismo non accetta la pretesa cristiana che Gesù di Nazaret sia stato il messia, guarda con sospetto a concezioni che gli sembrano contrastare il monoteismo come la trinità, l'incarnazione, il modo in cui i cristiani intendono il messia come “figlio di dio”, la figura di Maria, i santi.
I cristiani pensano, nella migliore delle ipotesi, che la rivelazione ebraica sia incompleta e che l'ebraismo si sia bloccato alla sua Legge, che andrebbe superata con la Fede. Sono accenni molto grossolani, che spiegano però la difficoltà delle relazioni di fede. Ci sono delle voci ebraiche che hanno sempre interpretato il cristianesimo positivamente, come una diffusione dei concetti fondamentali del monoteismo, che è uno dei compiti che la Bibbia assegna all'umanità. E ci sono sempre stati i cristiani che hanno riconosciuto che la divinità delle due religioni è la stessa e che la rivelazione ebraica è ancora del tutto valida. Quindi la convivenza è possibile, l'amicizia anche, la chiusura dello scisma di duemila anni fa invece no. Il problema su cui è possibile agire - a parte il comune impegno umanitario e la volontà di dialogo, che sono ben stabiliti, è un altro.
L'amicizia e il riconoscimento della Chiesa contemporanea per l'ebraismo si focalizza soprattutto sulla religione. Ma l'ebraismo non è solamente e non è soprattutto una religione. Se si intende fede, cioè un sistema coerente e organizzato, univoco, di pensieri sul divino che debbono essere creduti, l'ebraismo non è affatto una fede.
E' invece certamente una pratica di culto, una forma di vita che caratterizza e definisce da tremila anni un popolo. Un popolo concreto, un gruppo di persone, di famiglie, di stanziamenti di organizzazioni che si perpetuano nel tempo e che da un secolo e mezzo ha intrapreso l'impresa di riconquistare la sua patria da cui era stato espulso e tenuto lontano con la violenza, pur riuscendo a non abbandonarla mai del tutto.
Questa patria è da quasi settant'anni uno stato, quello di Israele.
E' con questo popolo, con questa patria e con questo stato che la Chiesa non ha trovato ancora una relazione soddisfacente. Non l'ha trovato dal suo punto di vista, perché almeno fino a pochissimo tempo fa la sola soluzione che la Chiesa sembrava vedere era la conversione degli ebrei, che avrebbe comportato la loro scomparsa come popolo (e così è accaduto per tutti gli ebrei che si sono convertiti: a differenza di francesi, inglesi, cinesi, armeni e quel che volete, non ci sono mai stati ebrei cristiani, almeno non per più della prima generazione di convertiti, in qualche caso).
Questa condizione ha comportato una difficoltà anche maggiore della Chiesa rispetto alla Terra di Israele, che non voleva vedere in mano a un'altra “religione” né a un popolo il cui destino escatologico era quello di scomparire.
Oggi forse qualcosa delle premesse di questo ragionamento è cambiata. Ma bisogna ancora capire quanto. Dal punto di vista ebraico, questo problema è decisovo, ha carattere esistenziale. Perché l'ebraismo vive solo come popolo, non è una fede individuale. E si realizza interamente, com'è chiarissimo dalla lettera della Bibbia, solo sulla Terra di Israele. Dunque l'amicizia cristiana per la “religione” ebraica è una buona cosa, per noi, ci dà il piacere delle relazioni umane e anche qualche speranza di schermo al ripetersi delle persecuzioni passate. Ma non basta. Ci vuole amicizia per il popolo di Israele e per il suo stato. Certo, in questa maniera si passa dalle relazioni interreligiose a quelle politiche; ma Israele è sempre stata una realtà anche politico-sociale, che arriva sul piano delle relazioni col divino grazie alla sua dimensione sociale. E dunque non può intrattenere semplicemente relazioni interreligiose e non politiche senza negare la sua stessa natura.
Per concludere con una nota pratica. Sei anni fa, quando Benedetto XVI venne al Tempio di Roma io c'ero e ricordo bene che fece un discorso colto e interessante, in cui però molti di noi notarono che mancava la parola Israele. E' un test. Non c'è dubbio che Francesco parlerà in maniera molto diversa, più popolare e facilmente comunicativa. Sarà interessante vedere se pronuncerà questa difficile parola, e in che contesto
Ugo Volli