Non è tempo per piangere in Israele 07/11/2015
Autore: Dario Sanchez
 Non è tempo per piangere in Israele
Commento di Dario Sanchez

Come tutti sanno, ottobre non è stato esattamente un mese facile per Israele. La tempesta di violenza, lacrime e sangue con cui il terrorismo palestinese ha scosso le nostre vite e la calma delle nostre strade, anche se in questi giorni appare attenuata, è ancora al di là dal finire, e sono in tanti a interrogarsi su quali potrebbero essere gli sviluppi della catena di eventi che a più riprese è stata definita come l’intifada dei coltelli. Ampio spazio è stato dato a questo o a quell’attentato, e non sono mai mancati gli elenchi con i nomi delle vittime e degli aggressori.

Ciò che è mancato, colpevolmente, è stato il racconto della reazione per lo più composta e dignitosa di cui più volte ha dato prova la popolazione israeliana in queste settimane di dolore e tensione. In particolare, a mostrare coraggio e nervi saldi sono stati i nostri giovani, impegnati a migliaia nella leva obbligatoria o come riservisti in tutte le zone calde dove la convivenza tra ebrei e musulmani è messa ogni minuto a rischio dai fanatici al soldo degli imam estremisti e dai burocrati dell’"Angelo della Pace” di Ramallah.

Voglio colmare questo vuoto, per raccontarvi che cosa significa vivere a diciotto, diciannove, venti, venticinque anni in un Paese che affronta periodicamente fin dal primo giorno della sua nascita lunghi periodi in cui la sua stessa esistenza è seriamente messa in discussione. In Israele si impara presto che la più alta forma di resistenza al terrore è la strenua difesa della quotidianità. E se è vero come è vero che il terrorismo è riuscito momentaneamente a cambiare alcune delle nostre abitudini - ad esempio per ovvi motivi di prudenza è ancora impossibile a Gerusalemme vedere per strada o su un autobus un ragazzo ascoltare musica o tenere lo sguardo sullo schermo del proprio smartphone - è altrettanto vero che nessun liceo, università, discoteca, pub, ristorante ha abbassato nemmeno per un istante le saracinesche o cambiato orari e programmi: a disertare questi spazi non sono stati tanto gli israeliani, ma, purtroppo, molti turisti.

Persino i membri di quelle ONG “ostili" e quei giornalisti che di tanto in tanto si affacciavano dai balconi dei loro alberghi nella speranza di vedere le vie di Gerusalemme, di Beer Sheva e Tel Aviv deserte hanno dovuto prendere mestamente atto che nemmeno per un momento la nostra voglia di vivere le nostre giornate e gli spazi delle nostre città non è stata soffocata sotto la cappa del terrorismo, ma è anzi diventata il simbolo della nostra ostinazione e della nostra resistenza alla violenza.
Un esempio per tutti: a Gerusalemme, nel periodo in cui le aggressioni coi coltelli e gli investimenti erano purtroppo quotidiani, si è svolta una conferenza internazionale che ha portato nella nostra capitale centinaia di giovani studenti e laureati in ingegneria aerospaziale provenienti dai cinque continenti. Tra di loro c’era anche un vivace gruppo di italiani, incontrati casualmente in strada e con i quali ho avuto modo di passare alcune piacevoli serate in Città Vecchia e nella downtown in zona ovest: non c’è stato un solo attimo in cui si siano sentiti in pericolo, grazie ai nostri coetanei in divisa che vigilavano sulla nostra sicurezza.

Non c’è tempo per piangere, in Israele. Talvolta nemmeno nell’intimità della notte. Ogni ferito e ogni vittima al contrario esige da parte nostra uno sforzo ancora maggiore a continuare sulla strada del sogno iniziato quel lontano 1948. Raccogliere i cocci, e pedalare… magari su una delle migliaia di biciclette di ogni tipo, colore e dimensione che affollano tutte le città del Paese. Un aspetto importante e per niente secondario da considerare è che in nessun momento, nonostante le ingenti misure di sicurezza e i blocchi che momentaneamente sono stati innalzati in alcune zone di Gerusalemme - e in gran parte già smantellati - mai la libertà di movimento di persone e merci da e verso i territori palestinesi è stata in alcun modo compromessa. Sono migliaia gli arabi dotati di regolare permessi di passaggio che dall’inizio della crisi sono regolarmente entrati in Israele senza intoppi per studiare e lavorare, e la convivenza pacifica in tutti quei locali e quelle aziende che vedono lavorare fianco a fianco israeliani e palestinesi non è mai venuta meno, e nemmeno a dispetto dei pronostici e delle preoccupazioni degli odiatori di Israele la sicurezza e la tranquillità degli arabi israeliani e di quel 20% degli studenti delle università di religione musulmana.

Ciò che è morta ancora una volta sotto i fendenti del terrorismo degli islamisti e dei nazionalisti palestinesi - da sempre la vera ferita che periodicamente si apre e riprende a sanguinare - è la speranza di noi israeliani di poter trovare un giorno un interlocutore credibile nella controparte per poter arrivare a una vera pace. In particolare a costituire un trauma è il gran numero di aggressioni compiute non da “palestinesi “ ma da arabi israeliani apparentemente integrati nel tessuto del nostro Paese, dove hanno ricevuto pari opportunità, tutela e istruzione, però eletto a male assoluto da attaccare e distruggere. Siamo diventati, mi duole dirlo, più diffidenti. E’ inevitabile quando il vicino di casa che fino al giorno prima era tranquillo e apparentemente cordiale, un giorno nel nome di Al Aqsa e di Allah decide che il tuo destino è quello di morire, solo perchè sei un ebreo che è nato o ha deciso di vivere nella sua stessa terra. La nostra vera vulnerabilità è questa sensazione orrenda e costante di avere anche questo nemico “interno” che ci vuole vedere morti, nonostante condivida con noi praticamente tutto e non si fa mancare nessuno dei diritti che gli derivano dall’avere la cittadinanza israeliana.

E’ un paradosso, ma in Israele - un Paese “giovane” e che proprio per questo dà grande spazio ai giovani e investe tantissimo in istruzione e innovazione - è proprio sul tema della sicurezza e della costruzione di un futuro di pace con i nostri vicini che noi ragazzi ci sentiamo al momento impotenti. Contribuiamo ogni giorno in ogni campo - dalla difesa alla ricerca scientifica - al progresso del nostro Paese e in prospettiva di tutta l’umanità come pochi altri giovani hanno possibilità di fare nel mondo : creiamo start-up e imprese di successo, combattiamo malattie devastanti e la fame, lanciamo satelliti in orbita che contribuiranno a tirare fuori l’Africa dall’analfabetismo digitale ma ogni volta che proponiamo una soluzione al conflitto che ci vede contrapposti agli arabi palestinesi troviamo dall’altra parte un muro fatto di odio e bugie. Sono in molti, ormai, ad essersi rassegnati a un inevitabile e tragico momento in cui un ennesimo conflitto totale e su larga scala non sarà più rinviabile.

Israele è un Paese che per sopravvivere e prosperare chiede a noi che siamo i suoi giovani un prezzo altissimo: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e al tempo stesso come se non si dovesse morire mai, difendendo con le unghie e con i denti quei piccoli e grandi riti che fanno quella cosa preziosissima chiamata quotidianità . Fare due o tre anni di servizio militare stanca. Sapere che per difendere la tua casa, la tua terra e la tua libertà sarai costretto a rimanere riservista fino ai cinquant’anni, in ogni momento di necessità richiamato sotto le armi, stanca. Ci vuole davvero tanta determinazione e un grande senso di appartenenza a questo popolo di ostinati unito a un amore incondizionato e sconfinato per questo piccolo fazzoletto di terra per rimanere piantati come alberi alle pendici di questo vulcano in continua eruzione . Credetemi, è davvero una gran fatica restare giovani tutta la vita per potersi permettere il lusso di invecchiare.

Dario Sanchez