Raymond Aron
Libertà e uguaglianza
Edizioni Dehoniane Bologna
Poche filosofie e «famiglie» politiche sono state ricche, variegate e pluralistiche quanto il liberalismo. Come ci ricorda il pensiero di uno dei suoi maestri novecenteschi, il filosofo e sociologo Raymond Aron (1905-1983), di cui esce per la prima volta in italiano un testo prezioso, quello dell’ultima lezione tenuta presso il Collège de France il 4 aprile 1978. Lo mandano in libreria, col titolo Libertà e uguaglianza, le Edizioni Dehoniane Bologna (pp. 76, euro 8,50), a partire da un dattiloscritto su cui lavorarono Giulio De Ligio e Pierre Manent (suo allievo famoso, e cofondatore della rivista Commentaire, che firma l’introduzione). Si tratta di una lezione che l’intellettuale francese antitotalitario aveva consacrato «alle» libertà, al plurale, come non smise mai di sottolineare nei suoi lavori, improntati al realismo politico e a quello che, non senza una certa dose di autoironia, aveva etichettato come il suo «machiavellismo moderato».
Quest’ultimo appuntamento del suo corso va ricondotto però a un altro filone della ricerca di Aron, quello che si fa, in qualche modo, direttamente politico, e convive con l’esegesi di Max Weber e Vilfredo Pareto, dai quali traeva la percezione lucidissima di quanto il conflitto e il dramma facciano parte della storia (e della condizione) umana. Nella sua tassonomia delle libertà – personali, sociali e politiche – all’interno dei nostri sistemi politici, il grande studioso si interrogava sulle sfide filosofiche soggiacenti, evidenziando come le liberaldemocrazie rischiassero di infilarsi in un vicolo cieco, tra l’autoconfino in una dimensione puramente procedurale e il definirsi esclusivamente per contrapposizione rispetto ai regimi totalitari.
Qui emerge l’Aron del liberalismo come «attributo», e mai «sostanza», ovvero il pensatore realista che, studiando l’evoluzione storica delle forme di governo, si era persuaso del fatto che la politica liberale offrisse quello sfondo di razionalità grazie a cui venivano garantite agli uomini le condizioni di vita migliori e più dignitose. In questo, c’era l’«inquietudine civica» di chi aveva attraversato gli orrori del Secolo breve e si interrogava sulla «crisi morale delle democrazie liberali», non lesinando alcune critiche nei confronti di Friedrich von Hayek. Non da progressista, naturalmente, ma da coerente «classico liberale» e da aristotelico che riteneva si dovessero fare i conti, in permanenza, con l’esistente.
Aron analizza sempre e non propone mai verità da opporre all’individualismo edonistico contemporaneo. Fedele alla sua idea di liberalismo come dottrina e anche programma, e alla visione per la quale l’imparzialità dello studioso-osservatore, che non può non essere benevolo nei confronti delle debolezze del genere umano, rappresenta, in un certo senso, l’inizio della cura (e della guarigione). Lo studio oggettivo e realista della politica quale «psicoterapia», potremmo dire, e come rimedio ai problemi che affliggono la cittadinanza. E oggi che quella «disposizione libertaria» (nella versione della mercificazione dei desideri) si è convertita in una componente strutturale di società non per questo diventate autenticamente più libere, il rigore intellettuale di Aron può dirci ancora molto, e perfino (cosa che, in fin dei conti, non gli sarebbe appunto dispiaciuta) stimolare qualche virtù – e anticorpo – civile.
Massimiliano Panarari - La Stampa