A destra: Abu Mazen all'Onu
Cari amici,
che la sessione autunnale dell'assemblea generale dell'Onu sia una specie di teatro della politica è un'opinione diffusa, che a volte sfugge anche a quelli che fanno finta di prenderla sul serio. Del resto è ormai abbastanza chiaro che tutta l'organizzazione è inutile se non dannosa. Manovra una quantità enorme di denaro, di solito con procedure assai poco trasparenti che ogni tanto vengono fuori in qualche scandalo. Legittima senza vergogna i peggiori regimi oppressivi - pensate alla nominda dell'Arabia Saudita alla testa della commissione dei diritti umani, proprio mentre sta per decapitare e poi crocifiggere un dissidente per le sue parole e ne ha condannato un altro alla pena di mille frustate per la sua attività di blogger. I suoi interventi “a difesa della pace” non sono mai serviti a nulla a memoria d'uomo. Figuriamoci la sfilata dei capi di stato e di governo davanti a una platea che non deve decidere nulla.
Il programma del "moderato" Abu Mazen: far sparire Israele dalle carte geografiche
Ma si tratta di un momento di comunicazione, in sostanza un gigantesco talk show, e val la pena di prendere atto che nessuno vuol mancare al party, da Obama a Putin, da Renzi a Netanyahu. Ci sono incontri paralleli, come quello fra i presidenti americano e russo, dove chi si è chiesto la ragione dell'impotenza di Obama ha visto in filigrana il fallimento di una strategia di appeasement ancora stoltamente sostenuta dalla stampa mondiale. Ma si guarda anche ai discorsi pronunciati come programmi politici. Per esempio c'è chi ha notato che nel discorso di Obama non è stato citato neppure una volta il conflitto arabo-israeliano, al contrario degli anni scorsi (per un'analisi di dettaglio sulle parole spese nei vari anni: http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/Analysis-On-Obama-ignoring-the-Israeli-Palestinian-conflict-in-his-UN-speech-419367). C'è chi si allarma per questa assenza, si è letto anche che Kerry ha impedito un incontro programmato fra Netanyahu e Abbas (http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2015/09/israel-diplomatic-process-netanyahu-abbas-kerry-herzog.html) io invece sarei contento se Obama e Kerry rinunciassero a progetti impossibili di pace subito, limitandosi a consolidare uno status quo che, nonostante il terrorismo strisciante dei palestinisti è il più pacifico di tutta la grande area che va dalla Libia all'Iraq fino allo Yemen. Del resto il conflitto vero è fra l'espansionismo sciita (Iran, governo iracheno, Assad, Hezbollah) e il fronte sunnita, che magari non si identifica con i crimini dell'Isis, ma non può accettare di subordinarsi a una setta molto minoritaria (gli sciiti sono il 10% dei musulmani) con cui combatte da dodici secoli. E' un conflitto che si è riaperto, e in cui Obama ha provato ad allinearsi con gli sciiti, che però hanno da tempo il patrocinio della Russia e che non vogliono cambiare cavallo, una volta strappato all'Occidente l'accordo che li arricchisce e li riarma subito e prima o poi darà loro l'arma atomica. Israele sa che i due schieramenti sono entrambi pericolosi e vanno tenuti a bada, concentrandosi sul pericolo più urgente. Ma gli Usa non hanno una politica e sperano solo nella buona volontà di avversari come Putin e Rouhani. Non occorre essere Machiavelli per comprendere che questa è la premessa per una sconfitta sicura.
E' interessante notare che all'Onu è voluto andare anche Abbas, il dittatore dell'Autorità Palestinese. Secondo uno stile normale per lui ha annunciato con largo anticipo che alla fine del suo discorso all'Assemblea Generale avrebbe “buttato una bomba”, che detto dall'organizzatore e dall'esaltatore di tanti attentati terroristici, è una gaffe per nulla spiritosa. E' una bomba metaforica, naturalmente, ma sembra il suo solito penultimatum, come quando un mesetto fa disse di volersi dimettere dalle sue cariche, per poi precisare che non si dimetteva da tutte, che le dimissioni non erano effettive se non dopo la riunione del Consiglio Nazionale Palestinese, che si proponeva di convocarlo subito, no fra un mese, no fra tre mesi - insomma forse mai.
Probabilmente Abbas si aspettava che tutti i leader mondiali si affrettassero a implorarlo di non buttare la bomba, o almeno gli chiedessero di che bomba parlava. Ma almeno in pubblico nessuno l'ha fatto e anche i capi di governo che hanno dedicato tutto il loro discorso o un bel pezzo all'odio per Israele, come il Qatar e naturalmente l'Iran, non si sono occupati di lui. Non vorrei dargli soddisfazione io, ma vale forse la pena di chiedersi il senso di questa trovata. Che cosa vuol fare Abbas? Dimettersi? Già fatto. Interrompere la collaborazione di sicurezza con Israele? Il problema è che metterebbe innanzitutto in pericolo il suo potere e la sua vita, in mezzo ai tentativi di colpo di stato dei suoi nemici e in particolare di Hamas. Dichiarare che non rispetta più gli accordi di Oslo? Di fatto non lo sta facendo da tempo: gli accordi per esempio proibiscono esplicitamente di portare le controversie fra le parti alle istituzioni internazionali e prevedono invece che siano risolte attraverso negoziati fra le parti, che Abbas ha sempre bloccato. In cambio Israele sarebbe sollevato dagli obblighi che rispetta, come la raccolta dei dazi per l'AP, la fornitura d'acqua ecc. Sciogliere l'Autorità Palestinese e riaffidare l'amministrazione a Israele? I danni sarebbero la somma di quelli delle “bombe” precedenti. Si leggono degli articoli in giro (per ultimo l'ha scritto “Le Figaro” di ieri: http://www.lefigaro.fr/international/2015/09/28/01003-20150928ARTFIG00310-le-crepuscule-d-abbas.php) sul povero Abbas, che aveva sperato tanto nella pace ed è vittima della cattiveria colonialista israeliana e dell'indifferenza della comunità internazionale.
In realtà le cose non stanno affatto così, Abbas ha avuto diverse volte delle offerte israeliane che non avrebbe potuto respingere, se gli fosse interessata la pace e la costruzione di uno stato palestinese. La realtà l'hanno detta tante volte dirigenti a lui vicini e anche la martellante propaganda svolta dal suo regime: quel che Abbas voleva e vuole, quel che è il programma dei palestinisti è la distruzione di Israele. Purtroppo per lui gli israeliani non sono disposti a suicidarsi e possono accettare solo delle soluzioni che garantiscano la possibilità per Israele di continuare a esistere e a prosperare. La crisi cui si trova di fronte Abbas non è quella delle prospettive di pace, ma della distruzione di Israele attraverso le trattative e la pressione internazionale. Come prima è andata in crisi la strategia della guerriglia, dei dirottamenti, del terrorismo suicida di massa. Oggi chi gestisce il palestinismo deve prendere atto di questo nuovo fallimento. Alcuni parlano di tornare al terrorismo di massa; ma non si tratta di un'opzione plausibile, perché Israele ha imparato come affrontare queste minacce. Forse si potrebbe sperare che l'apparato politico e la gente dell'Autorità Palestinese si rassegnino davvero alla pace, alla convivenza con uno stato degli ebrei. Ma certamente non è questo che dirà Abbas. Farà altre minacce, altre lamentele, altre falsificazioni, come sempre ne ha dette in passato e prima di lui il suo mentore Arafat. Ma sono bombe bagnate, fanno fumo e non cambiano niente.
Ugo Volli