Partenza e ritorno
György Konrád
Keller editore euro 14,50
La lingua di György Konrád è secca e lucente come un cristallo. Mai un aggettivo in più, mai una tentazione seduttiva tenera o melensa. È così che descrive la sua fanciullezza, prima gli agi e la felicità di un bambino benestante nato nel 1933 in un paesino agricolo ungherese, Berettyóújfalu, poi l'anno che gli cambiò la vita, il '44, con l'arrivo dei tedeschi, la cattura dei genitori, la fuga, l'incredibile periodo a Budapest, sotto le bombe, la salvezza.
Konrád, scrittore anticonformista e antipolitico, sociologo, intellettuale dissidente a tutto tondo, ebreo perseguitato dai nazisti a 11 anni, "un umanista col fucile in mano" nel 1956, davanti ai carri armati russi, passato per la galera, soffocato dal totalitarismo, ricorda. Ricordare serve a dare valore alle cose, ai fatti, a non accettare versioni accomodanti del passato. Un po' come scriveva Kundera, «la lotta contro il potere è la lotta della memoria contro il dimenticare».
Non immaginatevi però un noioso elucubrare su certi momenti. Con lui il racconto balla sostenuto da una musica continua, a volte serena, a volte spaventosa. Come abbiamo detto, in "Partenza e ritorno" si parla di infanzia, sono altri libri quelli dedicati alla nebbia attraversata sotto il comunismo. Aveva 5 anni quando venne a sapere che se Hitler avesse vinto lo avrebbero ucciso, «quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, 11 quando una combinazione di fortuna e buon senso mi risparmiò la vita, 12 quando sopravvissi anche al socialismo».
Il periodo al paese è dorato, lo circondavano la cortesia e l'allegria dei genitori, la tata che gli preparava il bagno caldo, i bei vestiti, una sorella più piccola, Eva, e il cugino Istvan, una specie di gemello da cui non si separava mai, la sinagoga.
Fuori ogni tanto passava un banditore con la sua canzone "Ebreo, ascolta, lurido ebreo", ma il padre chiudeva la porta del bel negozio di attrezzi agricoli, e tutto riprendeva come prima, anche se man mano ci fu sempre più esclusione. «Ora», scrive Konrád, «la mia famiglia... sono quasi tutti morti». Cinque cugini a Auschwitz e Mauthausen, e anche cinque zie, mentre uno zio fu ammazzato per strada dalle Croci frecciate. Lui però per un caso si salvò. Dopo che portarono via suo padre e sua madre in un campo di lavoro perché ascoltavano Radio Londra", per pochi giorni ci fu una specie di repubblica indipendente dei ragazzi rimasti a casa, capaci di intuire però che era meglio andarsene e buttarsi in un luogo più caotico, dove fosse possibile confondersi tra gli altri.
Tutti i soldi di casa furono consegnati a un tipo che procurò i visti per Budapest. Il giorno dopo nel villaggio rastrellarono tutti gli ebrei. In seguito furono loro gli unici bambini sopravvissuti di Berettyóújfalu. Il racconto della vita nella capitale è vivissimo. Il cambio continuo di nascondiglio, i parenti che a volte non li aiutavano abbastanza, una zia fantastica che li porta con sé in pochi metri di un caseggiato protetto dagli svizzeri (ricordate la storia di Perlasca?), sempre con una sigaretta tra le labbra, coraggiosa fino all'incoscienza, come quando andava insieme ai bambini a vedere i bombardamenti dal tetto quasi fossero fuochi d' artificio, il freddo gelato, la fame, gli ebrei legati insieme e colpiti sul bordo del fiume così che uno trascinasse l'altro a fondo, la cuginetta Klara che invece si salva sul Danubio perché un soldato tedesco ha finito le munizioni e le dice di andar via.
Il mondo era capovolto. E continuava a capovolgersi. I liberatori tanto attesi, i russi, stuprano molte donne, qualcuno regala cibo, qualcuno ruba. E poi a casa, un paradiso perduto che si era sbriciolato. Il tempio adibito a stalla per cavalli. Il ritorno miracoloso dei genitori. La nazionalizzazione, e loro indicati come membri dell'alta borghesia, nemici di classe. György torna a Budapest, dove vive ancora oggi, colmo delle sue memorie, come un outsider solitario e itinerante. L'hanno invitato tante università straniere, lui se ne va per un po' e torna «perché casa è in mezzo del ponte Elizabeth, dove, quando torno dai miei viaggi, guardo e mormoro come è bello».
Susanna Nirenstein - La Repubblica