Jonathan Pollard
Sono sempre più insistenti, seppur non confermate, le voci e le speculazioni sul possibile rilascio da parte delle autorità statunitensi di Jonathan Pollard, ex analista civile impiegato presso la U.S Navy, reo di aver salvato numerose vite nel mirino del terrorismo palestinese grazie al passaggio di documenti classificati all’intelligence del primo alleato degli Stati Uniti, Israele, e per questo condannato all’ergastolo. E’ bene ripeterlo, giusto per essere chiari: reo di aver salvato vite - senza per altro mettere in alcun modo a rischio la sicurezza americana - e dunque condannato.
Pollard, il prossimo 21 novembre, celebrerà il trentesimo anniversario dall’inizio della sua prigionia. Secondo la prassi, una apposita commissione federale potrebbe disporne la scarcerazione che, comunque, per via della condanna all’ergastolo, lo sottoporrebbe a numerose restrizioni della libertà tra cui il divieto di lasciare il territorio degli Stati Uniti, scrivere libri o rilasciare interviste: cosa intendono, dunque, queste “voci”, quando si parla di rilascio? Principalmente, della possibilità per Pollard di potersi recare in Israele. Manco a dirlo, sempre le “voci” attribuiscono l’imminente rilascio “pieno” di Pollard - chiesto insistentemente e pubblicamente da ogni Primo Ministro israeliano a partire dal 1995 in occasione di ogni visita negli USA, e costantemente negato - a una volontà da parte di Obama di smorzare la tensione tra la sua Presidenza e i vertici israeliani a seguito del trattato 5+1 di Vienna sul nucleare iraniano.
Pollard, arrestato nel 1985, è stato trattato dai tribunali americani con una durezza che nemmeno le spie dell’ex Unione Sovietica hanno mai sperimentato: molti personaggi che hanno seriamente attentato alla sicurezza degli Stati Uniti per conto e ordine del Cremlino sono stati infatti rilasciati nel quadro delle politiche di distensione tra blocchi o hanno scontato pene al confronto di quella inflitta a Pollard davvero ridicole. Come mai tanta durezza verso Pollard? Viene quasi il sospetto che sia stato eletto a monito e ad esempio per quella porzione di ebraismo americano sostenitore delle ragioni di Israele e per questo periodicamente accusato di doppia fedeltà. L’affare Pollard è la minaccia nemmeno troppo velata, direi vivente, a tutti quegli ebrei americani che in virtù delle loro posizioni di rilievo nelle istituzioni, nelle forze armate e nella società statunitense potrebbero decidere in momenti di particolare tensione di utilizzare gli strumenti e le conoscenze in loro possesso per avvantaggiare lo Stato Ebraico, magari - è solo un'ipotesi - informando per tempo le autorità israeliane di una minaccia alla sicurezza dello Stato di cui i servizi segreti americani sono a conoscenza ma che per le ragioni più diverse non è stata comunicata alla controparte israeliana.
Tutto ciò dovrebbe indignarci. Ma quello che ci indigna, in particolare, è l’equiparazione tra una vicenda dove a prevalere dovrebbe essere la pietà e la giustizia - che nel caso Pollard sono entrambe mancate - con il disaccordo tra Israele e gli Stati Uniti su una questione centrale come quella di quali rapporti mantenere nei confronti di un Iran fondamentalista e aggressivo che si appresta a diventare potenza nucleare. Due vicende diverse che niente hanno in comune, e che la politica israeliana ha tutta l’intenzione e l’interesse di tenere separate.
E’ già successo, non troppo tempo fa, che l’amministrazione Obama sventolasse il caso Pollard come incentivo per Israele ad accettare “compromessi” che avrebbero potuto lederne la sicurezza. Era il 14 aprile del 2014, e John Kerry proponeva di rilasciare Pollard come “regalo” qualora Israele avesse proceduto a un quarto rilascio di numerosi palestinesi detenuti con gravi accuse di terrorismo: fu Pollard in questo caso - che in galera ha perso la salute, ma non la dignità - a tirarsi fuori da questo squallore, rispedendo la proposta della sua liberazione al mittente e battendo sui tempi il commento ufficiale del governo israeliano.
Dario Sanchez