A destra: la distruzione del Tempio di Gerusalemme in una tela di Francesco Hayez
Cari amici,
ogni tanto capita a tutti gli ebrei e dunque anche a me di sentirsi interrogare sul “segreto” del nostro popolo, magari anche col fare ammiccante di chi lascia intendere che ci sia un'essenza genetica o una congiura, o una qualche strana peculiarità che farebbe di noi un gruppo particolarmente potente o intelligente o ricco. E' una domanda che suscita in me spesso una qualche diffidenza e fastidio, perché da un certo modo di apprezzamento collettivo al timore e perfino all'odio il passo può essere breve: c'è insomma un razzismo positivo non lontano da uno negativo e naturalmente ben diverso dall'amicizia vera, dal dialogo, dalla comprensione, o dalla semplice accettazione. La verità è che gli ebrei sono un popolo come tutti gli altri, con la loro normale proporzione di persone intelligenti e di cretini, di persone oneste e di mascalzoni, di persone dotate per la musica e per gli affari e di gente stonata o incapace di gestire il denaro. La differenza rispetto ad altri popoli non è genetica o metafisica, ma culturale. E consiste nel fatto che un piccolo popolo, già cacciato esiliato e più volte pressoché sterminato dai suoi vicini quando aveva uno stato a casa sua, per duemila anni è stato poi disperso ed esiliato, oggetto di pressioni violentissime perché si convertisse, si assimilasse, insomma sparisse come entità collettiva.
Molti hanno ceduto alle persecuzioni e alle promesse di una vita meno miserabile, e sono diventati cristiani o musulmani, il che poi significa italiani, francesi, polacchi o... arabi in Siria o Libano, Egitto o Marocco. Ma quelli che sono rimasti ebrei hanno dovuto trovare i mezzi di una doppia sopravvivenza: come individui isolati o famiglie, impossibilitate per legge, per costume e per odio circostante a fare la vita normale dei contadini e degli artigiani (e dunque spesso hanno dovuto ingegnarsi a trovare un lavoro non proibito e che richiedesse poche strutture e fosse facile da spostare, come i medici e i prestatori di denaro e di recente anche i musicisti e gli intellettuali, ma per lo più condizioni molto più miserabili come i rigattieri e gli stracciaroli). Ma poi c'è stato un secondo livello di sopravvivenza, quello collettivo, in cui l'elemento determinante era lo studio (della tradizione ebraica) e la memoria (della propria identità di popolo).
L'Arco di Tito, a Roma, rappresenta la presa di Gerusalemme e l'inizio di una delle numerose diaspore del popolo ebraico
Se all'ebraismo si applica nel modo più chiaro la definizione di identità come “scegliere di essere ciò che si è” (perché c'è sempre stata una forte pressione su ciascuno e su tutti per tradirsi, scegliere di non essere più ciò che si è o si era), questa scelta è stata innanzitutto memoria di sé, della propria cultura, del proprio modo di vita e della propria storia. Per questa ragione il calendario liturgico ebraico è pieno di date che hanno rilevanza storica, che ricordano momenti lieti o tristi della vicenda storica del popolo ebraico. Essi sono in relazione naturalmente alla fiducia e alla fedeltà (non semplice fede, un rapporto assai più intimo) nel Dio unico cui il popolo ebraico crede di dovere l'esistenza storica propria, oltre che naturalmente quella generale del mondo. Ma non si tratta di una “storia della salvezza” come un percorso lineare verso l'oltremondo, come hanno (fra)inteso i teologi cristiani soprattutto protestanti, quanto una vicenda davvero storica, piena di errori, di tentativi, di vicoli ciechi, di eventi esterni e sbagli interni che turbano la vita del popolo. Ricordarli non è solo riaffermare una continuità con tempi ed eventi remoti (a quale popolo interessa oggi di Canne e Salamina, di Brenno e Vercingetorige, come agli ebrei importa della lotta di Mosè col Faraone o dei Maccabei con i sovrani ellenisti, ricordate nei dettagli da feste e narrazioni?). E' anche trarre lezioni per il presente e per il futuro, capire l'Inquisizione o il nazismo nei termini delle persecuzioni egizie e persiane. Dunque è un doppio strumento di sopravvivenza, un tesoro di conoscenze sul passato e l'identità e una metodologia di conoscenza del presente. Questo è il segreto, almeno il segreto storico-sociale, di cui si può parlare laicamente senza far appello a dati di fede: Israele è il popolo della memoria.
Il 9 di Av è la ricorrenza più triste dell'intero calendario ebraico
Vi scrivo queste righe perché sabato prossimo (ma quest'anno sarà effettivamente celebrato domenica, perché la santità e la gioia del sabato nella coscienza ebraica vincono su qualunque lutto) ricorre la data più triste del calendario liturgico ebraico, quel 9 del mese di Av in cui si colloca la doppia caduta di Gerusalemme, per mano dei babilonesi nel sesto secolo prima della nostra era e dei romani nel 70 dopo, e in cui la tradizione accumula anche altri momenti di lutto e di errore, come l'episodio degli esploratori nella Bibbia che si spaventano e rifiutano la terra di Israele e la sconfitta della rivolta di Bar Kochbà nel 135 cui segue la distruzione di Gerusalemme da parte di Adriano. Tutte queste sciagure vengono ricordate e compiante con un rituale simile al lutto per un parente stretto, ma collettivamente e con l'aggiunta di un digiuno totale dal tramonto della viglia alla notte del giorno successivo, preghiere penitenziali, lettura del libro delle Lamentazioni.
Non entro qui nel senso religioso della giornata, vorrei solo invitarvi a pensare al suo valore di memoria: il lutto è per la perdita della Terra di Israele, di Gerusalemme, del Tempio, accaduta in un modo o nell'altro 20, 25, 35 secoli fa. E' la memoria di un legame vissuto come essenziale ed eterno, necessario all'autodefinizione del popolo e alla condizione della sua vita regolare. Ancora oggi lo si celebra, anche a Gerusalemme liberata dal '67, perché questa liberazione non è considerata completa, in quanto essa è contestata e combattuta, come sanno bene i lettori di Informazione Corretta. Chi si illude di poter staccare facilmente Israele da Gerusalemme, di “internazionalizzare” la città o di cederla agli arabi, di far rinunciare agli ebrei la terra di Israele e la sua capitale come fossero luoghi qualunque, dovrebbe assistere almeno per qualche minuto ai rituali di questa giornata. Chi, dentro e fuori del popolo ebraico, parla del sionismo, dell'amore per Israele, addirittura del popolo ebraico come invenzioni; chi nega, come fanno ostinatamente e ottusamente o spudoratamente gli arabi dell'Autorità Palestinese, il legame del popolo ebraico con la sua terra, dovrebbe riflettere su un lutto che si prolunga per duemila anni e passa, ed è sempre stato celebrato solennemente, anche in mezzo alle più terribili tragedie, anche ad Auschwitz o nella prigioni dell'Inquisizione.
Questo è il segreto: ricordarsi da dove si viene per sapere chi si è, condividere il dolore (e quando è il caso la gioia) attraverso le generazioni (fino alle centinaia di generazioni) e i continenti, sapere che il percorso storico del popolo ebraico è il ritorno (in Israele come all'integrità morale e a Dio, perché la parola teshuvà vuol dire sia ritorno fisico che pentimento e reintegrazione dell'identità che infine risposta). Per questo piangere per Gerusalemme ditrutta da Nabuccodonosor, Tito o Adriano e mantenere viva la propria identità e sostenere lo Stato di Israele sono la stessa cosa, lo stesso gesto.
Ugo Volli