Sette anni di felicità
Etgar Keret
Traduzione di V. Mantovani
Feltrinelli euro 14
ETGAR Keret è uno degli scrittori più noti della sua generazione, quella della fine degli anni Sessanta. Anche attore, sceneggiatore, regista, l'autore israeliano è noto per i suoi racconti fulminanti, surreali e realistici in cui fotografa l'assurdità del vivere in un paese stressato dalla guerra e che prova una sua impossibile normalità. Pizzeria Kamikaze, Gaza Blues e Le tette di una diciottenne sono alcuni dei libri che lo hanno fatto conoscere al pubblico italiano già dieci anni fa. Dopo il suo ultimo di fiction pubblicato con Feltrinelli, All'improvviso bussano alla porta, grazie al quale ha ricevuto in Francia l'onorificienza di Cavaliere delle Lettere e delle Arti, torna con un libro diverso, Sette anni di felicità (Feltrinelli) in cui si racconta tra la nascita del figlio Lev, nel bel mezzo di un attentato terroristico a Tel Aviv, e la malattia e la morte del padre. Resta la sua inconfondibile ironia ma con accenti anche commossi e malinconici, nel tentativo di trovare il buono anche dove è difficile vederlo. Un passo autobiografico con un libro che non uscirà in ebraico, ma prima in Italia. "Per me è stata un'esperienza strana, quando scrivo fiction mi sento protetto - spiega Keret - esprimo sì le mie emozioni ma non racconto il contesto esteriore. Stavolta ho pensato di far partecipare anche gli altri, mettendo a nudo alcuni aspetti della mia personalità. Ma siccome non ho ancora piena confidenza nel farlo con chi mi è vicino, il mio paese, i lettori, gli amici, tento una sorta di esperimento con voi in Italia, i lettori dall'altra parte del Mediterraneo".
Il primo racconto si apre con un allarme missilistico nel momento della nascita di suo figlio. Si chiude con un altro allarme. Nel mezzo, la vita raccontata con humor. Dove si trova la forza di vivere i momenti felici circondati da allarmi continui? "Quando si vive a lungo in una condizione anomala come quella mediorientale, diventa normale. Un po' come chiedere andare al polo e chiedere a un eschimese com'é il tempo, per lui è bello e per te fa un freddo cane. Io sono nato in Israele, avevo sette anni quando é scoppiata la guerra del '73, ho passato gran parte dell'infanzia in un rifugio antiaereo ma non mi sono mai sentito sotto pressione, era quella la vita, non mi sentivo né fortunato né sfortunato".
Ha mai avuto davvero paura? " Sì, quando sono diventato padre. È stata la prima volta. Perché va bene se il pericolo lo corri tu, ma quando c'è il rischio di un attacco devi prender tuo figlio, coprirlo con il tuo corpo, rassicurarlo. Speri che le cose vadano bene, il suo cuore batte forte. Ti senti triste e impotente".
Una forma di impotenza che ha imparato a gestire? "In passato sì. Poi però la vita cambia. La malattia di mio padre l'ha amplificato. Quand'ero bambino io, le guerre erano inaspettate. Ora c'é il paradosso che sembrano delle biennali, ogni due anni ce n'è una. Come un rito pagano in cui vengono sacrificati bambini israeliani e palestinesi, anche se muore un ragazzo o un soldato di 18 anni per me è sempre un bambino. Tutti sappiamo che non si può fermare. Noi parliamo, molti ne scrivono come faccio io, ma sappiamo di essere del tutto impotenti".
Di fronte alle sue narrazioni, noi come lettori ridiamo. Voi un po' meno. Come nel racconto Pastrami, in cui, a allarme finito, il bambino vuole continuare a "giocare". "In realtà un episodio del genere non la sento come una cosa negativa perché poi prevaleva la gioia di sopravvivere e il fatto che fossi lì con la mia famiglia. In generale quel che si sente è una profonda tristezza, una sensazione fisica. Quando, ad esempio, sono in Italia, provo la differenza. Dico sempre ai miei amici che l'Italia è come Israele solo che cucinano meglio e non si ammazzano l'uno con l'altro".
Che sensazione ha della situazione nel suo paese, anche alla luce degli accordi, molto criticati, con l'Iran? "Vorrei distinguere la situazione israeliana e mediorientale da quella che riguarda l'Iran. Raggiungere la pace oggi in Medioriente è molto più difficile rispetto a dieci anni fa, oggi è tutta l'area a essere instabile, dalla Siria alle primavere arabe, la Libia, il Libano. Fino a vent'anni fa dovevi negoziare con le leadership laiche di questi paesi, adesso hai le formazioni islamiche, i partiti, l'Isis, Hezbollah ma anche Hamas. È tutto più instabile. Firmi un accordo con un paese poi cambia la leadership e gli accordi saltano. E questo è un aspetto. Israele sta affondando in una sorta di disperazione. Prevale la sfiducia, la percezione diffusa è che le cose non cambieranno, che ci siano troppi interessi affinché possano cambiare. Il governo, poi, cerca una soluzione a senso unico, è come un operaio che vuol fare una riparazione ma dalla cassetta degli attrezzi tira fuori solo il martello. Se avessimo un Nelson Mandela israeliano certo, non raggiungeremmo la pace in un anno ma ora il mio paese è paralizzato dalla paura e d'altro canto anche dal solito messaggio che domina presso alcuni partiti al governo, quello per cui la terra ce l'ha data Dio e non va divisa con altri. Ha presenta Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo? Quando tenta di scappare e gli altri ospiti del manicomio lo sfottono? Ecco, lui risponde: la differenza fra me e voi, è che io ci ho provato. Ecco il problema con il nostro governo. Non raggiungono nulla perché neanche ci provano. L'accordo con l'Iran è buono solo perché senza sarebbe stato peggio, ma non è che mi renda felice".
Nel suo libro cita il sionismo, la fondazione dello Stato ebraico, racconta i suoi viaggi nell'est europeo, in particolare in Polonia, la terra di sua madre. Sente le radici o si sente lontano? "È complicato, perché la Polonia ad esempio è il luogo dove ho le mie radici, dove sono cresciuti mia madre e i miei nonni e bisnonni prima di morire nei lager, sempre in Polonia. È la terra dove sono morti molti membri della mia famiglia e, pur avendo avuto molte vittime, è stata anche una terra di collaborazionisti antisemiti. In quel paese sento una specie di storia interrotta, provo gioia, ma anche molta rabbia".
Ora che è morto suo padre ci porterà suo figlio, gli racconterà il passato della sua famiglia? "È strano ma i miei genitori, che sono scampati all'Olocausto, non ne hanno mai parlato con me. Penso che volessero proteggermi e del resto quand'ero bambino mi dicevano 'di questa cosa non si parla', tu obbedivi e tacevi. Mia madre ha sempre detto che non sarebbe mai tonata in Polonia ma mio figlio è molto curioso, vuole sapere dettagli, nomi, a volte è anche imbarazzante perché non so rispondere. A fine maggio faremo un viaggio, mia madre, io e mio figlio e lei ha deciso di tornare per la prima volta dopo settant'anni, vuole mostrare al nipote i suoi luoghi, cose che a me non ha mai detto né fatto vedere. Ha capito che la memoria va preservata e non si deve trasmettere in modo astratto ma con i dettagli, con i nomi delle persone, toccando e facendo vedere i posti in cui si è vissuto".
Mario De Santis - La Repubblica