A destra: Ari Shavit e il suo libro "La mia terra promessa"
Quando si tratta di Israele, l’attitudine della sinistra non è mai cambiata: se il testo è critico, se mette sotto accusa Israele, se si rifà alle menzogne ripetute tante volte da renderle vere, se cura con attenzione tutte le omissioni possibili che potrebbero mettere in discussione i pregiudizi e la diffamazione dello Stato degli ebrei, allora quel testo ha via libera. Chi l’ha scritto mette buone basi alla propria carriera, se è un libro, le recensioni, largamente positive perché ostile a Israele, arriveranno a pioggia.
È quanto non è successo ad Ari Shavit, autore de “La mia Terra Promessa”, uscito un anno e mezzo fa anche in italiano, che non ha lasciato traccia di recensioni, almeno sui giornaloni. Il fatto curioso è che Shavit è un famoso (non in Italia) editorialista di Haaretz, il giornale che molti definiscono ‘arabo in lingua ebraica’. Ari Shavit è però una eccezione. Di sinistra lo è di sicuro, il suo libro – che ha avuto enorme successo nei paesi di lingua inglese - non è affatto un testo di propaganda pro Israele, anzi.
La copertina italiana
La storia parallela che lui racconta di ebrei e arabi in quella terra che da Palestina riprese il nome di Israele dopo il 1948, è persino troppo sbilanciata a favore di coloro che, almeno dagli anni ’60 in poi, si sono appropriati della qualifica di palestinesi. Non una pagina oscura, solo storie edificanti o penose di diritti rifiutati, persecuzioni, occupazione, mai una critica, una citazione. Quella parte dedicata agli arabi è la metà di un libro che, invece, non è tenero verso la parte ebraica, nulla viene risparmiato, alcuni episodi storici addirittura peggiorati (Deir Yassin, per esempio).
Eppure, da persona sostanzialmente onesta, pur con tutte le critiche che gli si possono rivolgere, il suo libro non potrà non mettere in crisi l’anti-sionista tutto d’un pezzo, quello che accetta soltanto propaganda, guardandosi bene dall’avanzare dubbi su ciò che fino ad oggi gli hanno propinato. La rinascita di una nazione, così come l’ha raccontata Ari Shavit, lascia il lettore colmo di emozioni, perché si è reso conto di molte verità che a sinistra sono sempre state taciute.
Come dicevo, recensioni, di quelle che fanno vendere, non ne ha avute, non conosco i dati di vendita, ma temo siano deludenti. Come giornalista, Shavit non ha mai smentito la sua fama di ‘indipendente’. Lo è stato quando per primo, su un quotidiano filo islam e di sinistra, ha raccontato lo scorso anno in un reportage durato alcune settimane, il pericolo rappresentato da un Iran nucleare. La verità la scrivevano altri, leggerla su Haaretz faceva impressione.
Benjamin Netanyahu
Anche oggi Shavit va contro corrente. In un editoriale, scriveva ieri un pezzo che poteva essere non lontano da quello di Netanyahu. Intanto, scrive Giudea e Samaria invece di West Bank o Cisgiordania, non perché stia dalla parte degli israeliani che vivono nei territori contesi, ma, credo, perché quello è il nome ebraico da millenni di quelle terre. Racconta poi il terrorismo islamico senza abbellirlo o giustificarlo, come avviene ancora su gran parte dei nostri media. Scrive che il Ramadan di quest’anno è stato un mese sanguinario, dove non ci sono state responsabilità di Israele, anzi. Dà invece dei consigli su come riempire il “vuoto diplomatico” che si è creato dopo la guerra della scorsa estate a Gaza. Arriva a scrivere che non sono i coloni i responsabili dei crimini mostruosi dello Stato islamico, neppure delle uccisioni di innocenti cristiani in vacanza sulle spiagge del Maghreb. Non siamo noi israeliani responsabili di tutto questo, come non saremo noi in grado di porvi fine, scrive.
"C'è differenza tra Hamas e Stato islamico?"
"Di fatto, no..."
Ma Israele, sostiene Shavit, può produrre una nuova iniziativa per riempire quel vuoto diplomatico e garantirsi la sicurezza. Come? Proseguendo quella strana alleanza che vede Israele con i paesi sunniti moderati, in una coalizione con al centro gli Stati Uniti per favorire il cambiamento a Gaza. Grazie alla tecnologia israeliana, i soldi dell’Arabia Saudita e il sostegno dell’Egitto. Tra gli obiettivi, anche un porto saudita/egiziano a Gaza che darebbe a Israele la garanzia della sicurezza, diversamente da come è stato finora con i tentativi di contrabbandare armi sotto la scusa degli aiuti umanitari. Un progetto che potrebbe far uscire la storia mediorientale da quell’equivoco rappresentato dalla Anp nella parte dei buoni e Hamas in quella dei cattivi.
Se in tutti questi decenni le trattative di pace sono fallite è sempre stato per il rifiuto della dirigenza araba cosiddetta moderata. Forse il caos attuale del mondo arabo può essere una carta da giocare per raggiungere davvero un risultato. Impresa quasi impossibile, ma questo non esclude che la si debba valutare. Certo, Hamas non aiuta, difficile che rinunci alle sue scelte criminali di movimento terrorista, non si deve dimenticare che deriva dai Fratelli Musulmani.
Proprio oggi il generale Yoav Mordechai, responsabile del governo in Giudea e Samaria, ha dichiarato a Al Jazeera che Israele ha le prove del sostegno di Hamas allo Stato Islamico nelle stragi avvenute nel Sinai. Ma il tentativo va fatto, colloqui neanche tanto segreti sono intercorsi con il governo israeliano, ovvio che nessuna delle due parti l’ha confermato. Questa notizia rimette tutto in discussione, ma la realtà mediorientale può cambiare radicalmente in 24 ore.
Angelo Pezzana