Pubblichiamo la lettera inviata da una lettrice a Sette, a seguito della pubblicazione della recensione a un libro di Paola Zannoner.
Ne abbiamo parlato alla pagina http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=274&sez=120&id=58657
La recensione del libro "A piedi nudi, a cuore aperto" (DeAgostini editore) di Paola Zannoner fatta da Sette è vergognosa, come lo è senza dubbio il libro stesso. Serve, però, ad aprire gli occhi su come la propaganda anti-israeliana passi anche da opere di fantasia come i romanzi.
Fantasia che non manca all'autrice, se scrive che «i palestinesi da 70 anni vivono come schiavi nella loro terra».
In questo caso, la responsabilità va attribuita non solo all'autrice, ma anche a Sette che pubblicizza il libro e a DeAgostini che lo ha pubblicato.
Ecco la lettera:
Signora Zannoner, a lei certo dispiacerà che sia venuto il momento di raccontare, nelle scuole, ai ragazzi e alle ragazze, una storia autentica, differente da quella che racconta lei nel suo romanzo, con il pretesto d'un amore giovanile temerario ; da quella che, dal 1967, viene disonestamente raccontata nel mondo, non solo nelle scuole, e che è diseducativa, immorale, e nega il valore della storia come apprendimento eterno di ciò che è stato, che si è visto, che gli occhi stessi dell'umanità hanno visto; come la radice id della parola storia, contenuta anche nell'aoristo del verbo ὁράω e nel perfetto del verbo consimile εἲδω, ci chiede di vedere, appunto, di raccontare e tramandare perché si sa. Un storia raccontata, invece, ancora senza sapere, senza voler vedere, in maniera invasata, distruttiva, nel modo contrario anche al senso ebraico della storia, che nella lingua antica d'Israele si dice toledot, generazioni, proprio per indicare l'amore veritiero e la passione responsabile presenti nel raccontare i fatti per le generazioni, nella lezione che essi meritano di conoscere, di vedere con tutta l'anima, e con la consapevolezza chiara, limpida anche quando è sofferta, che un insegnamento leale e non corrotto deve trasportare nelle loro menti. Una storia, per esempio, che inizia così: e davvero non inizia neanche del tutto così, perché tutto inizia ancora prima, molto prima, ma un inizio non troppo lontano da noi in questa storia dobbiamo pur convenirlo, per amore di verità sì, ma anche di vicinanza, di distanza palpabile e raggiungibile, ancora, dal soffio d'alito e dalla sorpresa di ragazzi e ragazze, appunto; dal palmo delle loro mani capaci d'aprirsi e di giungere sin là, sino alla luce bianca di Hevron macchiata nel 1929 dalla strage araba di ebrei inermi,antichi e affini alla luminescenza della città, parte remota ed intrinseca di essa, come l'acciottolato delle vie, delle strade, degli scalini su cui poi scivolò il sangue. Ed è venuto il momento di raccontare quest'inizio, nelle scuole, ai ragazzi, alle ragazze delle scuole d'Italia, per esempio, che neanche sanno d'essere loro stessi piantati, con il loro stupore e il loro diritto di sapere, in un inizio così. Quest'inizio, quell'inizio, quando in quei giorni del '29, il caporale di Vienna poteva contare oramai su centomila uomini delle SA, dello Sturmabteilung, del battaglione d'assalto, mentre là, nella terra dove le lunghe vesti degli ebrei, i loro copricapi, la loro pelle risplendente d'epoca del re Davide, il battito del loro petto simile al volo della colomba venivano insanguinati, i muftì degli arabi invocavano la liberazione della Palestina per mano hitleriana, e folle di arabi danzavano attorno al fuoco che divorava le sinagoghe, e sfilavano con le gigantografie del caporale strette al petto, e urlavano che "Hitler era il loro eroe e gli ebrei i loro cani il cui sangue essi avrebbbero, ebbri di vittoria, bevuto". Quest'inizio, quell'inizio, quando nel 1936, mentre il caporale marciava con le sue schiere verso la Renania, per rioccuparla e rimilitarizzarla, a Zfat, dove i mistici ebrei da sempre avevano riversato segreti d'acqua nel cuore della città, di fronte ai tramonti ardenti stagliati sul monte Meron, i muftì alleati e supplici dei nazisti s'installavano là in alto, nei minareti, nelle torri dei muezzin, e da là fomentavano, guidavano la guerra d'odio contro gli ebrei; là, mentre il mercato circostante la moschea si riempiva, e le grida di morte, di spavento e devastazione aumentavano. E io, che in quella città ho vissuto anni di giovinezza, settant'anni dopo, ho visto con i miei occhi tutto questo: ho visto i luoghi, le impronte, l'eco dell'odio. E ho abitato in una casa abbandonata da arabi in fuga dopo che, il 16 aprile 1948, gli inglesi se ne erano andati e gli arabi combattevano per vincere, per cacciare gli ebrei, per ubriacarsi del loro sangue, ma non vinsero, e il 10 maggio del 1948 il comandante ebreo Yitzchak Hochmann morì ucciso nella battaglia più fiera e salda degli ebrei, come è scritto sulle pietre, come i miei occhi hanno letto e visto in anni di giovinezza. E ho abitato, più di cinquant'anni dopo la prima guerra di un'armata gigantesca araba contro un popolo di sopravvissuti, in una casa ch'era stata di arabi. Ho rivisto coi miei occhi la loro fuga, l'abbandono, i gemiti muti degli uomini, o il pianto lungo che percorre la schiena dei bambini ed estenua i fianchi delle donne, il loro animo forte. Ho sentito tutto questo nei giorni, nelle mattine inoltrate in cui gli uccelli entravano e uscivano dalle grate delle finestre azzurre, impelagandosi fra i rami dell'edera; nei pomeriggi silenti e dorati, quando i bambini non erano ancora tornati da scuola e le amiche spuntavano sulla soglia della cucina, e con l'accento americano esclamavano: "Ma è tutto così pulito, oh my G-od". O nelle notti, mentre i bambini dormivano ormai da un pezzo, e allora sì che era tutto veramente pulito e quieto, e il tavolo pronto per la colazione dell'indomani mattina, e il frigorifero in ordine, e la centrifuga della lavatrice che non scuoteva il sonno dei bambini, e una pace, una gran pace nella sala con la luce abbassata, e un po' di relax, di preghiera, di riflessione, e mai, un solo momento, l'idea che in quella casa bellissima non vi fosse stata anche un'altra vita, un'altra esistenza, un'altra lingua di donne, di padri, di bambini. Ma la vita ora era questa, una vita ebraica che aveva avuto la meglio sulla guerra e la morte. Poiché la partita non è mai stata, per gli ebrei, disconoscere il dolore degli altri, l'abbandono, le ferite, ma la vita. L'orgoglio, invece? Il senso irrinunciabile dell'onore perduto e della vendetta? La forza blasfema delle illusioni e quell'odio, sempre quell'odio antiebraico, annidato da secoli, covato, accarezzato come un'arma fusa col proprio cuore? Che cosa tutto ciò ha fatto conoscere agli arabi di quella terra, anche a quelli in fuga dalla casa dove io ho abitato in anni della mia giovinezza? Che cosa ha fatto conoscere alle loro generazioni, a coloro che, come dice lei nel suo romanzo, per bocca dei protagonisti, "vivono come schiavi nella loro terra?". E schiavi, in realtà, del rifiuto, dell'incapacità, incatenata a una corda troppo dura dell'essere stesso, di ammettere, accettare le cose, il ritorno degli ebrei, la sconfitta, la perdita, la speranza e la possibilità di ricostruire sulla base di questo? Signora Zannoner, una volta, prima di andare in l'America da sua figlia sposata là, Adina mi raccontò dei giorni fino a un momento prima della guerra del 1967, la guerra dei sei giorni. Non c'era odio nelle sue parole. C'era calma e lungimiranza. E lei di odio da ragazza ne aveva visto colare, insieme al sangue, nell'assedio arabo di Gerusalemme, nella distruzione del quartiere ebraico della città, nell'uccisione delle donne, dei bambini, dei vecchi ebrei, nel rantolo dei sopravvissuti stremati dalla fame; perché fu anche così, con la fame e l'assedio, che gli arabi soppressero gli ebrei di Gerusalemme allora, ma non la loro anima, non il loro anelito, non la loro resistenza incancellabile, vivente tra gli anfratti del Muro Occidentale, tra le macerie della Hurva, la sinagoga di rabbì Giuda il Pio, ovunque, fra i collegi, le case di studio, di preghiera, le case vere e proprie, sotto l'ombra gettata dagli alberi nei cortili della Rova. "Di qua, prima del '67, io vedevo le donne arabe", mi raccontò Adina che abitava là, a un passo dai Territori. "Le vedevo, vedevo i loro panni stesi. Vivevamo insieme". Eh sì. Anche questa storia andrà raccontata a ragazzi e ragazze ignari del vento che gonfiava quei panni stesi all'aria; ignari di quella guerra, diciannove anni dopo, che ancora una volta fece salire nell'animo degli ebrei, con la polvere e con la minaccia, la paura di scomparire. E invece no, grazie a D-o. Non scomparvero. Non scomparve la loro storia, la traccia indelebile del loro essere sopravvissuti anche a questo. Poi, può tornare anche il vento, e quei panni di donne arabe stessi all'aria, gonfi come l'impasto del pane, come l'esistenza. E i settant'anni di schiavitù dei palestinesi arabi essere visti quali sono, nella storia appresa fin nella sua radice, che è id, sapere, voler vedere. Nel suo romanzo, signora Zannoner, figura il ragazzo Taisir, che va a un incontro sull'ebraismo e subito chiede, "tosto", che si parli dell'altro lato della medaglia: "i palestinesi che da settant'anni vivono come schiavi nella loro terra". Sì, conosciamo la scena. Una di quelle, recenti, che mi viene in mente, è quando Amos Oz e Benedetta Tobagi ricevettero insieme il Premio Napoli. Anche là c'era "il ragazzo tosto", che si alzò e protestò come di consueto per la presenza dell'ebreo, del sionista; e disse che il premio si sarebbe almeno dovuto dare anche a uno scrittore palestinese. Amos Oz rispose che i premi si danno alle persone, non ai paesi. Ecco, mi viene in mente questo, a proposito del suo romanzo, dove i tosti ragazzi arabi vanno a un incontro sugli ebrei e sbraitano che bisogna parlare anche dell'altro lato della medaglia, come se l'altro lato della medaglia dell'ebraismo fossero i palestinesi solo e non tutto l'odio del mondo. Tutto l'affanno violento per ridurre a niente, oggi come ieri, il Libro d'Israele, il suo popolo, le pagine della sua storia, delle sue generazioni. Allora certo, signora Zannoner, anche a lei dispiacerà che sia venuto il momento di raccontarla, questa storia, nelle scuole, ai ragazzi, alle ragazze, sin da un inizio che non è proprio un inizio degli inizi, come nel libro di Bereshit, e che pure a quell'inizio appartiene, nel tempo d'Israele e dell'umanità.
Ariella Lea Heemanti