Gentilissima Redazione,
quando, il mese scorso, fu annunciato il raggiungimento di un accordo tra Santa Sede e Stato di Palestina sulla condizione giuridica, attività e proprietà della Chiesa Cattolica nei territori palestinesi, non ne fui particolarmente contenta, perché non mi sfuggivano le ragioni di preoccupazione espresse venerdì da Israele e perché speravo che prima si giungesse all'accordo con Israele sulle proprietà ed istituzioni cattoliche in territorio israeliano, oggetto di trattative da sedici anni.
Tuttavia, credo che si debba anche considerare la necessità della Chiesa di tutelare la sua presenza, attività, istituzioni religiose, sanitarie, educative, proprietà ed i suoi fedeli in zone che da oltre vent'anni, in forza degli Accordi di Oslo, sono in mani palestinesi.
Prima di giudicare l'Accordo globale (onnicomprensivo), penso si debba attendere di leggerne i 32 articoli. Quanto allo Stato di Palestina, di certo non si estende su tutti i territori conquistati da Israele nel 1967, ma mi chiedo se, dopo oltre vent'anni dagli Accordi di Oslo, non si debba considerare esistente (e responsabile) nella 'Zona A'.
Molto cordialmente,
Annalisa Ferramosca
Se i risultati della gestione dell'Anp della Zona A fossero positivi, potremmo anche darle ragione. Purtoppo, acnhe dopo Oslo, è avvenuto il contrario, i cristiani - quelli che hanno potuto - se ne sono andati in gran numero, chi non ne aveva i mezzi, vive in una condizione umiliante vicina alla persecuzione. Se è questo lo Stato di Palestina che il Vaticano apprezza, affari suoi e dei suoi - disgraziati- fedeli. Ma non ce lo presenti come un buon babbo e, soprattutto, immagini quali rezioni riceverebbe se dicesse a cristiani e cattolici che vivono sotto l' Anp che per poter giudicare l'Accordo deve leggerne tutto il capitolato. Lei non sa come vivono (quasi tutti) quegli infelici sotto dominio islamico.
IC Redazione