A destra: l'uscita da Yad Vashem, il museo e memoriale della Shoah a Gerusalemme: le colline verdi frutto del lungo lavoro dei pionieri sono il sogno avverato dello Stato di Israele, il concretarsi della speranza del popolo ebraico
Cari amici,
uscire da Israele è più difficile che entrarvi, non solo per i controlli di sicurezza, che sono particolarmente accurati e dunque un po' lenti, ma anche perché il farlo davvero esige una riflessione. Un viaggio in Israele, soprattutto se collettivo e di studio come quelli organizzati ogni anno da Informazione Corretta, non è turismo, o almeno non è solo turismo. E' un tentativo di comprensione, un'esperienza sul campo, benché breve e guidata. Le domande si affollano. Perché è nato questo stato, perché esso non è accettato ancora, dopo quasi settant'anni dalla sua nascita, dalla grande maggioranza del mondo arabo dei paesi terzomondisti, e anche oggi - se si bada ai fatti e non alle belle parole - da buona parte dell'Europa.
Yad Vashem
Quando se ne esce, e ci si è trovati di fronte, magari per la centesima volta, magari per la prima, a un'economia in grande sviluppo, a un'agricoltura meravigliosa, a una popolazione accogliente e cordiale, che certo non ignora contraddizioni e rivendicazione, ma gode di un livello di vita e di soddisfazione senza paragoni coi vicini, a una cultura e a una scienza che sono fra le prime al mondo - queste domande si impongono. I limiti effettivi di Israele, quelli su cui si estende la sua amministrazione e l'intraprendenza dei suoi cittadini, sono marcati dal verde dei campi e dei boschi che hanno trasformato il paesaggio: un segno di appropriazione fortissimo perché prodotto dall'amore per la terra, che sembra fisicamente ricambiato. Perché si chiede insistentemente, come fosse un segno di giustizia, di restringere drammaticamente questi confini, di portarli sotto il limite economico e militare di sostenibilità, quando lo spazio geografico si estende per migliaia di chilometri al di là da essi, praticamente disabitato e vuoto, certo oggi desertico, ma non meno di quanto lo fosse Israele centocinquant'anni fa, a portata dunque del lavoro e della tecnologia? Perché si vuole distruggere questo gioiello politico economico e culturale, che, essendo in primo luogo figlio della tradizione ebraica, discende però anche dalla grande cultura occidentale, dalla tradizione politica della democrazia, da quella economica del capitalismo, da quella tecnica dell'impresa scientifica europea?
Questa è la domanda principale che un viaggio in Israele pone ai suoi partecipanti. Ed è chiaro che la risposta non è a portata di mano, riguarda dati oscuri e permanenti dell'identità collettiva tanto musulmana quanto europea/cristiana. Forse la visita a Yad Vashem, il museo della Shoà, dolorosissima ma necessaria in tutti questi viaggi, propone una risposta. Come certamente non può dimenticare chi ci è passato, il corpo espositivo principale del museo è sotterraneo, un tunnel triangolare di cemento che perfora la collina ricevendo luce da un lucernario, da cui si dipartono, a destra e sinistra, le sale espositive, componendo un percorso a zig-zag in mezzo agli orrori della storia fra il 1933 e il 1946. La prima estremità del tunnel, quella meridionale da cui si entra, è chiusa e sospesa nel vuoto. Sulla parete di fondo si proietta una geniale istallazione video che sintetizza, in alcuni minuti, la vita degli ebrei orientali prima della distruzione, dal mondo semplice dei villaggi ebraici alla vita pulsante delle città, fino alle figure straordinarie di scienziati, artisti, politici, create dall'emancipazione ebraica: una vita ricchissima ma effimera, sospesa, talvolta senza saperlo nel vuoto. Attraversato con strazio immenso tutto l'orrore della Shoà, l'abisso che inghiottì tutto questo mondo, si arriva a un balcone che si affaccia sulle colline verdi di Israele, rimboschite con un secolo di sforzi. Si vedono villaggi, campi, boschi, un pezzetto di autostrada lontana. La vita di Israele, la sua bellezza.
Il paese che è nato nel 1948 non è una consolazione alla distruzione del mondo che fu distrutto nel decennio precedente. Tanto meno è una compensazione, una riparazione concessa dal mondo. Esso fu conquistato con le armi anche contro i colonialisti inglesi, oltre che contro gli arabi che volevano completare il genocidio. E' stato costruito col sudore e la fatica da generazioni di contadini, di scienziati, di lavoratori. Nessuno l'ha concesso, quel verde, nessuno l'ha regalato. E gli alberi e le case certo non possono consolare della violenza, della distruzione, della strage. Ma esso è una risposta. La risposta positiva e vitale di un popolo che ha rifiutato di farsi annichilire, che ha resistito durante la Shoà e anche dopo, e che ancora oggi, come spesso ripete chi parla di politica qui, rifiuta di suicidarsi. E' la vita come risposta alla morte, il futuro radicato che si sostituisce al terribile sradicamento europeo. E' la volontà di ricongiungersi alle radici antiche. Sui colli che si vedono di fronte, i profeti hanno parlato, re Davide ha danzato davanti all'arca santa che portava a Gerusalemme, suscitando l'indignazione dei benpensanti. Come la lingua ebraica, rinata per atto di volontà dopo due millenni e più di uso quasi esclusivamente liturgico, ma immediatamente fiorita alla grande letteratura, così questo paesaggio. La ragione del successo di Israele è la stessa di una pianta striminzita per essere stata tenuta a lungo in vaso, che viene restituita alla sua terra. Ed è anche quella di chi si è bruciato i ponti alle spalle. Non si illudano coloro che vogliono soffocare Israele o costringere i suoi cittadini ad abbandonarlo: il popolo ebraico non ha un'altra terra dove andare, da un secolo è venuto gradualmente nella sua maggioranza qui, per restare.
Se questa è la ragione del successo e della forza di questo paese, questa è anche la ragione dell'odio che lo circonda. La cultura cristiana, esattamente come quella araba, ma anche quella comunista e l'universalismo dei benpensanti europei, non possono perdonare al popolo ebraico di continuare ad esistere, mille e cinquecento o duemila o solo cento anni dopo che avrebbe dovuto dissolversi nel grande mare delle loro verità universali. Non tollerano che i maltrattamenti accuratamente somministrati non abbiano piegato gli ebrei. Che i ghetti non li abbiano fatto convertire al cristianesimo, lo statuto di schiavi tollerati o dhimmi all'Islam, l'educazione politica al cosmopolitismo europeo, l'agit-prop e i gulag al comunismo. L'Europa non sopporta che gli ebrei, invece di sparire tutti ad Auschwitz e farsi compiangere per bene con giornate della memoria e altre lacrime di coccodrillo, siano ancora lì a difendersi, a rivendicare con l'agricoltura e con la scienza, ma se occorre anche con le armi, il proprio diritto all'esistenza. Il mondo arabo non tollera che degli schiavi, degli esseri inferiori, si governino da soli su un angolo per quanto piccolo del loro impero; odiano il successo di Israele, economico sociale e culturale, che mette in luce il fallimento del loro modello arcaico di società.
Questa è la risposta che il terribile passaggio per Yad Vashem dà a chi si interroga: Israele è la risposta ebraica all'antisemitismo e al genocidio. E per questo oggi è odiato con la stessa forza e la stessa radice inconscia della violenza che trasformò bravi padri di famiglia tedeschi, studenti di filosofia e cittadini perbene di mezz'Europa, in aguzzini e carnefici. Non è solo un compianto per il passato, questo museo, ma un avvertimento per il futuro. Di fronte a questo, Israele significa “mai più”.
Ugo Volli