A destra: soldati israeliani
Cari amici,
Uno dei segreti pubblici del successo di Israele è il suo esercito. Nessuno stato avrebbe resistito a tredici conflitti (se non ho sbagliato a contare, fra guerre vere e proprie, le operazioni in Libano e a Gaza, la guerra d'attrito, quella non dichiarata degli arabi locali che precede la guerra di Indipendenza sono proprio tredici in meno di settant'anni), senza un esercito forte e preparato. E in effetti, guardando da lontano i grandi carri Merkavah parcheggiati nella basi del Golan o del Negev, vedendo i cacciabombardieri al museo dell'aviazione vicino a Beer Sheva, o anche solo seguendo la cronaca delle operazioni di successo (le ultime sono i bombardamenti in Siria dei convogli contenenti armi a tecnologia avanzata, probabilmente di origine russa, destinate ai terroristi di Hezbollah, di cui si è parlato pochissimo in Italia), l'impressione generale è di una grandissima potenza, come se Israele fosse la nuova Sparta (o addirittura con un paragone difficile da reggere: la nuova Prussia) del nostro tempo. Ma le cose non stanno affatto così, il paragone è completamente sbagliato. Non solo perché l'esercito israeliano si è spesso trovato a vincere in grande svantaggio numerico, come nella guerra dei Sei Giorni o in quella di Indipendenza, com'è logico trattandosi di un paese piccolissimo in confronto alla dimensione dei suoi aggressori arabi, e per lunghi anni anche assai più povero e ancora oggi infinitamente più isolato sul piano della diplomazia, dell'opinione pubblica, dei media. Ma soprattutto perché la società israeliana non è affatto militarista, anzi esattamente il contrario. Il desiderio di pace è iscritto nella tradizione biblica, nell'ideologia dei profeti e dei leader che hanno fondato il sionismo, nella lingua (ci si saluta dicendo “shalom” che ha come primo significato pace). Ma soprattutto nel pensiero comune, nella sensibilità comune. Che l'obiettivo fondamentale della politica israeliana sia la pace è un'idea che accomuna tutti i partiti, anche se i mezzi per raggiungerlo sono diversamente valutati; e soprattutto questo vale per le persone comuni, primi fra tutti quelli che si trovano a difendere la patria.
Per capire meglio perché Israele non è affatto uno stato militarista, ma semmai l'organizzazione di una popolazione di natura piuttosto anarchica, bisogna guardare i giovani alle armi. Li si incontra spesso, perché spesso vanno a casa anche durante il servizio militare e girano per autobus o fanno l'autostop, spesso affardellati da un grosso zaino, portandosi con noncuranza un fucile mitragliatore appeso su un fianco, con la canna a terra. Basta vedere come portano la divisa, spesso tutt'altro che uniforme, come il loro abbigliamento varia a seconda della loro identità, con l'aggiunta per fare solo un esempio, di diversi tipi di kippà (per far capire a chi non conosce il termine: la papalina tonda degli ebrei osservanti) e spesso anche delle frange bianche che escono da un indumento rituale che portano ancora gli osservanti. Basterebbe osservare le scarpe, di solito abbastanza diverse fra loro e ben lontane dal grado di lucido che richiederebbe un nostro sergente; o i capelli e la barba che vanno da zero alle variazioni stilistiche più personali. Sono ragazzi e ragazze molto belli, di tutti i colori di pelle e tagli di viso che si trovano in Israele (cioè tutti, davvero) spesso di una giovinezza che commuove ed emoziona. Pensarli immersi in una delle guerre che potrebbero arrivare produce un'angoscia profonda.
In questo viaggio abbiamo avuto un'occasione in più di far conoscenza con l'esercito israeliano, oltre agli incontri casuali. Siamo stati invitati alla cerimonia del giuramento del figlio della nostra guida Angela Polacco. E' stata una cerimonia in grande stile, tenuta in un luogo storico per le forze armate di Israele, qual fortino di Latrun che chiudeva la via per rompere l'assedio di Gerusalemme e che le forze dello stato neonato nel '48 cercarono quattro volte di conquistare, venendone respinte con forti perdite, prima di aprire un'altra strada per soccorrere la capitale assediata e violentata dalle forze giordane guidate dagli inglesi. Oggi vi sorge il museo dei carristi, con un centinaio di grandi macchine esposte, dalle più piccole e artigianali del tempo di quella guerra ai mostri attuali di potenza e di tecnologia. Al giuramento partecipavano un paio di centinaia di reclute che avevano appena concluso il periodo di addestramento, e l'impianto era quello delle grandi cerimonie militari: generali che parlavano, comandi di attenti-riposo-attenti, inno nazionale, marce.
Devo dirlo, dal punto di vista del formalismo militare puro, la cerimonia non era un granché. I soldati ogni tanto sbagliavano il ritmo, non sembravano ammaestrati per scattare ai comandi tutti assieme, insomma probabilmente su questo piano non avrebbero soddisfatto non solo un sergente istruttore dei marines, ma neanche delle nostre caserme. Senza dubbio la loro preparazione militare vera è di tutt'altro livello, sul piano dell'uso delle armi, della resistenza fisica, della capacità di coordinazione tattica e di preparazione alle incognite sono fra i migliori del mondo. Ma le parate non sono il loro forte. Non c'è per loro nulla da dimostrare con passi dell'oca ed evoluzioni in ordine chiuso. Sanno che il combattimento è un'altra cosa e si preparano per questo. E infatti la sensazione evidente durante la cerimonia era quella di un grandissimo entusiasmo, di uno spirito di corpo fortissimo, della consapevolezza allegra del dovere, non certo del formalismo da parata.
Al cuore della cerimonia vi era la consegna dell'arma e di un volume della Bibbia a ogni soldato. I gesti erano magari poco sincroni, ma l'adesione al significato simbolico della difesa della nazione e della sua tradizione millenaria era evidente. Non si trattava di mostrare un volto duro e un militarismo di parata, ma la cura, l'amore per il proprio paese, il senso gioioso di una partecipazione, la volontà di stare assieme e di aiutarsi. Tutt'intorno stava una folla grandissima: famiglie intere dai nonni ai numerosissimi bambini, tutte le facce di Israele dai religiosi ai laici, dai drusi ai solidi contadini dei kibbutz, dalle ragazze in minigonna e infradito alle donne con la testa coperta e la gonna nera fino ai piedi, da altri militari agli studenti in maglietta. E non era una folla composta e solenne, ma piuttosto il soggetto di una festa popolare, o magari anche un picnic (ho visto tovaglie stese sul prato piene di ogni sorta di cibo, torte a forma di carrarmato, dolciumi di ogni specie per i bambini). E poi striscioni, applausi da tifo quando il proprio caro giurava, grandi sorrisi. Quando è suonata la Hatikvà, l'inno nazionale, tutti si sono alzati in piedi. E davanti a me una bambina di forse sei anni, che aveva fatto grande confusione fino al momento prima, si è azzittita e ha fatto un saluto militare in piena regola. Alla fine della cerimonia i neosoldati, con il fucile appeso al fianco, hanno ripulito allegramente il prato di ogni piccolo pezzo di carta che le famiglie non avessero raccolto. E poi sono partiti con loro a fare festa.
Ecco, tutto questo non fa un esercito militarista, non certo un esercito spartano o prussiano, o il sogno di un generale dei nostri granatieri. Ma segna in maniera simbolica e sentimentale insieme il segreto vero dell'esercito israeliano, cioè l'essere armata di popolo, o ancora di più, l'insieme dei nostri ragazzi, dei figli e dei nipoti e dei cugini e degli amici, che si prende per un certo tempo il rischio più grande per conto di tutti. E' un patto profondo e vero, quello dell'autodifesa di un popolo che non ci sta a farsi sterminare come vorrebbero i suoi nemici, che è ben deciso a difendersi e a vincere, ma che non pensa affatto che in questa difesa consista il senso della vita, e che il modello debba essere quello dei soldatini di piombo ben in fila. A vedere questi ragazzi si sente allegria, affetto reciproco, senso dell'ironia ma anche serietà profonda, una creatività e una decisione e una disposizione al sacrificio che vanno ben al di là della disciplina. Per questo non si può non sostenerli, apprezzarli, invidiare un po' la loro travolgente giovinezza, insomma sentirli come i propri figli e amarli così. Con ansia e con preoccupazione, ma soprattutto con orgoglio e con fierezza.
Ugo Volli