Nuovi immigrati arrivano in Israele
Chi mi conosce, sa che spesso dico a me stesso di essere nato due volte: il 21 ottobre del 1990 e il 29 aprile del 2014, giorno in cui ho lasciato l’Italia e sono diventato cittadino dello Stato di Israele. E’ passato ormai un anno da quel giorno che ha cambiato per sempre la mia vita ed è tempo di considerazioni, riflessioni e bilanci. Un bilancio, per quanto riguarda la mia esperienza personale di oleh chadash e la mia vita privata, che considero tutto sommato positivo se non ottimo.
29 aprile 2015: a un anno esatto dalla mia partenza, il mondo in cui viviamo continua ad essere straziato dalla guerra e l’umanità continua a distinguersi per la sua brutalità e per il disprezzo costante che mostra nei confronti della vita in ogni sua forma, tanto umana quanto animale. Milioni di uomini combattono o vengono travolti nelle miriadi di conflitti in corso ai quattro angoli dalla terra, dall’Africa al Medio Oriente fino al cuore dell’Europa, con l’unica prospettiva di uccidere per non essere uccisi o di fuggire dalla propria terra perché impossibilitati a difendersi: travolti dal corso della Storia, questi uomini non sono che stuoli di profughi senza più nulla o carne da macello mandata al massacro per perseguire i fini di logiche e dinamiche molto più grandi di loro e lontane dal loro vissuto quotidiano.
Ogni giorno migliaia di vite troncate, di storie stravolte, di abusi e soprusi del più forte sul più debole, del vincitore sul vinto. Avviciniamo adesso il nostro sguardo e mettiamo a fuoco sulla situazione del popolo ebraico in diaspora, oggi, nel 2015, e vedremo che il mondo continua ad essere un posto per la maggior parte inospitale ed ostile agli ebrei, un posto dove si continua ad essere umiliati, emarginati ed uccisi dalle diverse anime e facce dell’antisemitismo. Non è un mistero che l’Europa, ma anche il Sud America, si stiano svuotando dei “loro” ebrei, in un flusso costante di partenze verso Israele che seppur graduale appare ormai come inarrestabile e che viene visto con sempre più fastidio ed inquietudine da numerosi leader mondiali.
L’altra faccia silenziosa di questo disagio interno alla diaspora prende il nome di assimilazione. E se è vero che dal Venezuela l'ebreo fugge dalla follia di un Presidente autoritario che affida le sorti di un intero Paese all’interpretazione dubbia dei canti di un canarino; dalla Bolivia, dal Messico e dall’Argentina dalla crisi economica e dai ricatti di una criminalità sempre più organizzata e invadente; dall’Ucraina da una guerra violenta e crudele che sempre meno risparmia sofferenze e violenze ai civili; è pur vero che dalla Francia, dalla Svezia e dalla Norvegia l’ebreo fugge dall’intolleranza e dalla violenza degli antisemiti di destra e di sinistra e degli islamisti… uniti assieme. E se non fuggono dal Nord Africa è perché in Nord Africa chi poteva fuggire è già fuggito da un pezzo e di ebrei non ne restano più. E se non fuggono dall’Iran è semplicemente perché non possono, al pari degli ebrei dell’Unione Sovietica che non hanno potuto per decenni.
E adesso, veniamo ad Israele: viviamo il paradosso, a 70 anni dalla liberazione della nostra terra, di non essere mai stati così forti e allo stesso tempo così insicuri come popolo dalla fine della Shoah e della seconda guerra mondiale, sia per via di quanto scritto prima, sia per via dei conflitti interarabi nella regione sia per l’atteggiamento troppo morbido e naif di Obama nei confronti di un Iran malato di megalomania e di deliri di onnipotenza. Al di là di questo, è pur vero che il lungo conflitto religioso interno al mondo musulmano in corso tutto intorno ai confini di Israele a Nord, ad Est e a Sud sta aprendo degli scenari di cooperazione e collaborazione con i nostri vicini arabi sunniti fino ad oggi inediti: e se ancora non vi è alcun riscontro ufficiale di riconoscimento da parte di stati come l’Arabia Saudita, è pur vero che molti analisti israeliani (e non) sostengono che un canale diplomatico aperto con Riad esista, alla luce del comune interesse al contenimento delle diverse forme di terrorismo islamofascista e dell’Iran che si avvia a diventare potenza nucleare, mettendo a rischio tutta la regione e avviando una nuova corsa al riarmo in questa parte di mondo già armata fino ai denti.
Parallelamente a tutto ciò, l’economia non smette di crescere e nonostante l’ultima operazione militare a Gaza e l’inevitabile danno che ha subito il turismo il PIL è cresciuto del 7%, ben oltre le più rosee previsioni, dimostrando ancora una volta tutto il carattere e l’intraprendenza di questa nazione giovane e forte.
L’impressione generale che ho ricavato da questo mio primo anno di cittadinanza in Israele e di residente del più vasto mondo è che come israeliani e più largamente come ebrei di questa generazione ci troviamo a vivere in un momento chiave della nostra Storia, che segnerà nell’arco di un tempo brevissimo la direzione che come popolo intraprenderemo per gli anni a venire.
Saremo chiamati ad assumerci molto presto responsabilità molto difficili. E’ in gioco ancora una volta la nostra esistenza e il nostro posto nel mondo, e le scelte che saremo chiamati a prendere qui in Israele in termini di sviluppo, strategie ed alleanze avranno inevitabilmente delle ricadute anche sul modo che il mondo avrà di porsi nei confronti degli ebrei della diaspora. Israele, nel bene come nel male, è l’unico posto nel mondo dove l’ebreo in quanto individuo conta davvero qualcosa, dove non è soggetto alle volontà di altri popoli presso cui è ospite ed anzi può prendere decisioni che avranno davvero una influenza sul suo popolo e dunque sul mondo.
Trasferirsi in Israele: è questo il tempo, non più rimandabile, di una aliyah non motivata dalla fuga dalla guerra, dalla povertà, dall’assenza di prospettive e dall’antisemitismo, ma dall’idealismo. Dal desiderio di esserci e di fare la propria parte nell’unico Paese in cui in quanto ebrei laici, religiosi, di destra o di sinistra, askenaziti o sefarditi, europei od orientali, possiamo essere davvero liberi. Io ho fatto questa scelta ormai un anno fa, e ad oggi si è rivelata una delle scelte migliori che ho fatto in 24 anni.
Dario Sanchez