A destra: la cena di Pesah in una illustrazione di Emanuele Luzzati
Cari amici,
la cronaca continua ad essere ricchissima di stimoli: purtroppo, come ricordate “che tu possa vivere in tempi interessanti” è un'antica maledizione cinese. Per esempio i sauditi, all'inizio della loro guerra in Yemen contro gli Houti protetti dall'Iran, hanno bombardato un campo profughi facendo una cinquantina di vittime, senza che nessuno alzasse la voce (provate a immaginare che cosa sarebbe successo se una cosa del genere l'avesse fatta Israele). Oppure, almeno al momento in cui scrivo la trattativa di Losanna per un accordo con l'Iran sembra che per l'ennesima volta non si sia conclusa, se non con un generico intendimento sulla sua prosecuzione e su alcuni elementi di accordo (ma altri di disaccordo), che è un ennesimo smacco per Obama, che grazie a Netanyahu è sotto schiaffo del Congresso.
Ma dato che questa è la mia ultima cartolina prima della festa di Pesah, che inizia venerdì sera, penso che sia opportuno distaccarsi un po' dai fatti quotidiani e considerare la ricorrenza. Che è importante anche dal punto di vista politico-culturale e non confessionale come quello che è proprio di questo sito. Perché è una festa che ricorda un evento politico (benché secondo la narrazione biblica direttamente voluto e guidato dal Cielo): la liberazione del popolo ebraico, che è contemporanea alla sua costituzione, o meglio alla consapevolezza della sua esistenza come entità collettiva fornita di scopi, identità e regole collettive, cioè come popolo in senso proprio. Secondo il testo biblico questo episodio è avvenuto circa 35 secoli fa; non importa qui discutere sulla fondatezza di questa datazione e neppure sulla storicità dell'episodio. Quel che mi interessa è che il mito fondatore dell'ebraismo è la liberazione del popolo intero da uno stato di schiavitù. “Siamo stati schiavi”, si dice durante il seder, la cena rituale che caratterizza la festa. “Siamo stati schiavi in Egitto" e ognuno deve considerarsi come se avesse personalmente preso parte alla liberazione.
Il ricordo dell'uscita dall'Egitto, del percorso che ha portato alla rivelazione del Sinai e alla conquista della Terra promessa (entrambe conseguenze della liberazione) è il tema fondamentale della coscienza ebraica, insieme al monoteismo e all'idea della Legge. L'uscita richiede da un lato separazione dal contesto sociale, anzi violenta opposizione (il che avviene con le “piaghe” e con la distruzione dell'esercito egiziano in mare), e dall'altro riconoscimento reciproco, rivendicazione dell'identità (il segno che gli ebrei mettono sulle loro porte e che induce la moria dei primogeniti a saltare le loro case; fra l'altro un'etimologia non so quanto esatta ma tradizionale fa derivare il nome Pesah proprio dal verbo ebraico “pasà” che designa questo “saltare oltre, scavalcare”). Essere diversi dalla popolazione circostante e riconoscersi come un'entità collettiva, difendere questa condizione quando occorre con le armi (succede spesso durante il lungo viaggio nel deserto e dopo), identificare la propria meta in un paese, dove non si è indigeni, ma si sente profondamente proprio perché “promesso”, mettere tutto questo in relazione a una Trascendenza che detta le leggi della convivenza e dell'etica, molto più che fare rivelazioni metafische, ricordare la propria origine, non dimenticarla mai: questa è l'essenza del popolo ebraico e anche della festa di Pesah.
La cerimonia caratteristica della festa si propone esplicitamente come una macchina pedagogica della memoria dedicata ai più giovani, ma incentrata per tutti sull'idea che ricordare la propria libertà significa viverla e che questo può avvenire solo in forma collettiva. Fra le figure evocate nel seder vi sono quattro figli, uno sapiente, uno ingenuo, uno che non sa neppure far domande, uno “malvagio”. La “malvagità” di questo figlio consiste nel porsi fuori dal popolo ebraico, nel metterne sotto accusa, o almeno in dubbio i comportamenti tradizionali, nel non sentirsi parte della collettività che compie il percorso della liberazione. E' la tentazione fortissima di chiamarsi fuori, di non sentirsi corresponsabili della vita collettiva, anche eventualmente di ciò che in essa appare sbagliato o poco piacevole. La tentazione di sentirsi superiore e giudicare il collettivo cui si appartiene. La risposta che si dà alle sue provocazioni, secondo la tradizione biblica è “pensando così, agendo così, saresti rimasto in Egitto, non saresti stato liberato”, come in effetti secondo la tradizione accadde alla maggioranza del popolo ebraico non solo in Egitto, ma in tutti gli esili, in Babilonia, in Europa, nel cristianesimo e nel comunismo.
"Che cosa dice il malvagio?"
Se tutta Pesah è ancora attuale, dato che l'ultimo esodo del popolo ebraico ha portato negli scorsi sette decenni i sopravvissuti di Auschwitz, dei pogrom islamici o semplicemente i dispersi di Israele esattamente in quel fazzoletto di terra dove Mosè guidò i loro avi cento generazioni prima, oggi è particolarmente attuale il giudizio sui “figli malvagi”. Essi ci sono ancora, come sanno bene i miei lettori, e oggi però non sono solo in esilio, anche se la maggior parte vi vive o si è esiliata da sola di nuovo, ma guida l'offensiva contro il popolo ebraico, è l'arma principe in mano ai faraoni di oggi, che lo sappiano e lo facciano apposta, come i vari Chomski, Pappé e i loro trascurabili eredi italiani, o credano di “castigare Israele per il suo bene”, come sostengono degli altri che vorrebbero anche ammirazione e gratitudine per il loro tradimento.
Al di là di queste miserie, ricordare Pesah oggi è sapere che di nuovo l'Esodo è in corso, anche se con modalità che percepiamo più politiche che religiose; che di nuovo il popolo ebraico è riunito in una dimensione nazionale e statuale, che di nuovo esso è sotto l'attacco degli antisemiti. Festeggiare Pesah ancora una volta dopo secoli e secoli significa di nuovo sentirsi come coloro che sono stati miracolosamente liberati dall'Egitto e sapere che questa liberazione oggi ha nome Israele. Sicché giustamente si è imposta l'abitudine di concludere il seder non solo dicendo, come si è sempre fatto dacché c'è la diaspora “l'anno prossimo a Gerusalemme”, ma cantando l'inno nazionale di Israele, che si intitola “la speranza” (HaTiqvà) e parla esattamente della volontà di ricostruire lo stato ebraico, abbattuto dai romani e da allora oppresso da ogni sorta di invasori.
A tutti i miei lettori ebrei auguro “Pesah sameah vekasher”, una festa felice e condotta secondo le regole. E ai miei lettori cristiani la cui festa coincide quest'anno quasi perfettamente con la nostra, auguro buona Pasqua.
Ugo Volli