Israel J. Singer - A oriente del giardino dell’Eden - 06/03/2015
Israel J. Singer
Autore: Giorgia Greco

A oriente del giardino dell’Eden
Israel J. Singer
Bollati Boringhieri euro 18,50

Israel Joshua Singer, che per Harold Bloom, come sapete, è stato assai più ricco di talento del fratello minore e premio Nobel Isaac Bashevis, alla fine degli anni Venti, dopo la ferocia delle critiche lanciate su di lui dal mondo rivoluzionario ebraico ( universo a cui aveva aderito profondamente, andando nel 1918 a Mosca e tornandoci ancora come reporter sempre più perplesso e dubbioso), decise di rinunciare alla letteratura yiddish ( in cui secondo i suoi nemici metteva troppa politica, e troppo poco romanticismo alla Peretz ) e di dedicarsi invece al giornalismo. Quattro anni dopo, nel 1932, il ripensamento. Perché, come diceva Isaac, che allora faceva poco più del correttore di bozze, «era un narratore nato. Ed ecco il romanzo Yoshe Kalb, centrato tra sinagoghe e colori quasi fosse un affresco medievale, su un ebreo partorito dal chassidismo che, non riconoscendosi più nelle tradizioni, non riesce a trovare né un luogo, né un'identità. Fu un enorme successo, come il successivo e stupendo Fratelli Ashkenazi del 1936. E subito arrivò anche Khaver Nakhman, ovvero "Compagno Nachman" ( 1938 ), pubblicato l'anno dopo in inglese come East of Eden, tradotto solo ora in maniera straordinariamente empatica da Marina Morpurgo. A oriente del giardino dell'Eden ( dove, secondo la Genesi, il Creatore pose i cherubini a proteggere la via all ' albero della vita, ma certamente "a Oriente" anche come il sole nascente dell'Urss ) è un ritorno senza appello sui temi che gli erano stati contestati poco tempo prima. La prima parte del lungo racconto è dedicata a Mattes Ritter, un ambulante pio, ingenuo, devoto fino a sembrare quasi un de-cerebrate, un povero ebreo polacco scalzo, con la barba e gli occhi neri: non ha di che nutrire la moglie e le figlie, ma ringrazia continuamente Dio per la sua bontà. Con lui camminiamo per le pianure polacche. Con lui mangiamo dosi di pan secco. Ci mettiamo i filatteri per le preghiere. Siamo presi in giro dai passanti gentili. Ci laviamo e ci percuotiamo con rametti di salice nei bagni pubblici dello shtetl prima dello Shabbat. Un quadro chassidico animato da una sorta di dignità, del sapere di essere nel giusto, vicini a Dio, eppure maledettamente disgraziato. Arriva un figlio maschio, Nachman. E Mattes sogna per lui, mingherlino, schivo, un futuro da rabbino, si ingegna a nuovi sacrifici. È la figlia maggiore Scheindel a rompere lo schema tramandato da generazioni. Se ne va a Varsavia a lavorare, risparmia, si rallegra, cade nelle trappole della città, con un tocco di nobiltà d'animo che non l'abbandonerà mai. Non vi racconteremo tutto, sta di fatto che è tutta la famiglia a spostarsi nella capitale, ad essere travolta dalle guerre mondiali e da quelle imperiali. Ma è soprattutto Nachman a cambiare. La passione che da ragazzo chiuso in se stesso aveva imparato per la religione, ora diventa amore per la lotta sociale, per il comunismo. Non pensa ad altro, non fa altro, oltre a lavorare come panettiere. Quando parla sembra un foglio di propaganda, anche con la moglie Hannah. Galera, torture, niente lo piega. Spirito temprato nell'acciaio. Finché non raggiungerà l'amata Unione Sovietica, a costo di tutto. Dire che non ci trova il paradiso terrestre è dir poco, ma, pur abitato lentamente dal dubbio, non ha neppure il coraggio di dirsi deluso. Se la nomenklatura vieta di denunciare le ingiustizie del regime, in lui è la fede ad impedirglielo. ll personaggio di Nachman è un ritratto perfetto. Tutti sono perfetti. Di carne e ossa. Con amore, ironia, amarezza. E quante folle, quante strade attraversiamo: i cambiamenti dell'Europa di allora travolgono uomini e donne come onde marine e non si sa dove li porteranno. Singer però vede. Così come nel '43, un anno prima di morire, con La famiglia Karnowski aveva saputo descrivere l'atroce illusione dell'integrazione dell'ebraismo europeo prima del nazismo, così nel '38 fotografa il tuffo di tanti ebrei nel sogno del socialismo come via di emancipazione perenne, di giustizia messianica. E l'infrangersi buio delle speranze.

Susanna Nirenstein La Repubblica