Intervista a Imre Kertész 27/05/2007
Autore: Giorgia Greco

Dalla STAMPA di oggi, 27/05/2007, a pag.33, una intervista al premio Nobel Imre Kertés di Marina Verna.

La vita ha cominciato a sorridergli a sessant’anni. Prima l’aveva solo strapazzato: bambino ad Auschwitz, adulto a Budapest sotto il regime comunista. Lo consolavano le parole: il suo rifugio, la sua gioia, il suo paradosso mortale, come dice.
Imre Kertész scriveva, anche se pochi lo leggevano. Rovesciava gli aspetti bui dell’esistenza in libri autobiografici come Essere senza destino o in fiction come Storia poliziesca - ora tradotta in italiano da Feltrinelli - e si procurava pane e godimenti segreti traducendo Roth e Thomas Mann. Poi cadde la Cortina di Ferro, il traduttore divenne un autore tradotto, sempre di più, fino alla consacrazione - sorprendente anche per lui - del Nobel 2002. Così la sua vita è cambiata: solo i vestiti sono rimasti gli stessi, un po’ informi, e i capelli abbastanza lunghi sul collo. «Se penso a come sono nato, a come ho vissuto per quarant’anni e a come vivo oggi... è semplicemente fantastico».
Adesso Kertész vive a Berlino - Charlottenburg, quartiere borghese - e riceve nel bar di un grande albergo. «Il mio studio», dice, e indica un tavolo con due sedie. È sobrio con sé - ordina un espresso, gli mettono sul piattino due biscotti, ne spilluzzica solo mezzo - ma generoso con il cameriere. Ha modi squisiti, ma parla disinvoltamente anche di soldi: «Quando mi hanno dato il Nobel ero felice perché i miei problemi erano risolti. È stata una catastrofe fortunata».
Catastrofe? Il Nobel?
«Alcuni ti lodano, molti ti screditano. Ho subìto critiche assai spiacevoli, mi sono sentito dire che non sarei un vero ungherese, che sarei solo un ebreo. Ma ormai tutto questo per me non ha più significato. Ormai sono al sicuro».
Dalle critiche?
«No, dalla povertà. Non sono più giovane, ho 77 anni, e alla mia età la stabilità è importante. Non il lusso, ma la libertà che danno i soldi. Ora ho la base materiale per vivere e lavorare tranquillamente, non devo più preoccuparmi di come pagherò l’affitto. I soldi non sono secondari. Chi lo dice non ha mai vissuto in condizioni indegne. Io, come scrittore, sono vissuto per trent’anni in una situazione indegna: non ho ricevuto né attenzione né ricompense. Per questo l’assegno del Nobel mi ha fatto felice».
Ora vive a Berlino. Per ripicca?
«No, adesso in Ungheria sono addirittura un eroe nazionale, i miei libri vengono subito pubblicati, ricevo un premio dopo l’altro. Ma io sono un uomo da grande città, Budapest è molto bella ma dopo quarant’anni basta. A Berlino c’è una vita internazionale molto più interessante, ci sono i teatri e le grandi orchestre. Io adoro la musica, vado al concerto ogni volta che posso. Poi mi piace passeggiare, per strada sento parlare tutte le lingue, mi sembra di essere a New York».
Perché è qua e non là?
«Per puro caso. Alla fine degli anni Novanta non riuscivo a finire Liquidazione, ero troppo preso dai nuovi eventi a Budapest. Mia moglie allora mi ha detto: andiamo via, in un posto dove sei più tranquillo. Berlino non è cara, abbiamo preso un appartamentino e ho ricominciato a scrivere. Non sapevo fino a quando avrei potuto pagare l’affitto, ma ce l’ho fatta. E siamo ancora qua: mia moglie ha avuto un’idea davvero ottima».
Lei è sposato? Ma non aveva sempre detto che non voleva sistemarsi?
«Sì, non volevo mettere su famiglia, non volevo avere figli, non volevo farmi coinvolgere né corrompere. Volevo conservare la mia indipendenza, essere scrittore, restare scrittore. Sono vissuto come volevo: pensando, passeggiando, scrivendo, nuotando. Finché il Muro non è caduto e io ho conosciuto una signora ungherese che viveva negli Stati Uniti e tornava a casa. Adesso sono uno scrittore sposato».
Lei a 14 anni è stato deportato ad Auschwitz, e per tutta la vita ha scritto di Auschwitz. Però ha scelto la Germania come nuova patria. Suona strano.
«La mia patria è una patria dello spirito. Io mi sento capito più qua che in Ungheria. E uno scrittore vuole essere utilizzato, vuole che ciò che pensa venga accolto e discusso. A Berlino tutto è aperto, anche l’Olocausto. I tedeschi hanno fatto moltissimo per documentarlo, non nascondono niente. Qui il passato è presente, in Ungheria invece mi chiedono: perché scrivi sempre di tempi lontani?».
Quando era chiuso a Budapest, ha tradotto molti autori tedeschi: Nietzsche, Freud, Wittgenstein, Hofmannsthal. E poi gli austriaci: Canetti, Josef Roth, Schnitzler. Traduceva dal tedesco, la lingua delle SS...
«... ma anche la lingua dei miei autori più amati, e la lingua nella quale leggevo la cosiddetta letteratura proibita. Camus, ad esempio. Non si deve mescolare la lingua con gli uomini. E poi le SS parlavano un tedesco orrendo, la lingua degli ordini non era certo quella di Thomas Mann. E comunque non la si può considerare responsabile di ciò che accade, non mi sembra corretto mettere sotto accusa un’intera cultura perché dei vigliacchi hanno usato la sua lingua».
Lei non ha mai amato la politica: né del governo né dell’opposizione.
«Non ho mai cercato un’appartenenza e non ho mai creduto nel socialismo dal volto umano. Sotto quel regime non era bello essere uno scrittore».
Eppure molti giovani scrittori della Germania dell’Est dicono esattamente il contrario: che volevano scrivere per essere significativi.
«Fra me e loro c’è un’intera generazione. Io ho vissuto la dittatura nera e poi lo stalinismo. Sotto dittatura lo scrittore ovviamente ha problemi a pensare liberamente. I miei libri più importanti - Senza destino, Fiasco - li ho scritti tutti sotto pressione. Forse è questa che mi ha aiutato a scrivere. La grande domanda è proprio: si può lavorare solo in condizioni assassine, riflettendo su esse, o il talento di dispiega anche nella libertà?».
Ha trovato una risposta?
«Sì: in libertà ho scritto quelli che considero i miei due libri più belli. Liquidazione e Dossier

Ecco la breve scheda sull'autore:

Imre Kertész venne deportato ad Auschwitz nel 1944, quando aveva 14 anni, quindi fu trasferito a Buchenwald, da dove fu liberato nel '45. Tornato in Ungheria, dove era nato a Budapest nel 1929, lavorò come giornalista in un quotidiano della capitale fino al '51, quando il giornale divenne organo del partito comunista e lui fu licenziato. Per finanziare la propria carriera di scrittore indipendente ha tradotto scrittori e filosofi di lingua tedesca e scritto opere teatrali.
Ha lavorato dieci anni al suo primo romanzo, Sorstalansag (tradotto da Feltrinelli con il titolo Essere senza destino), e altrettanti ne ha impiegati a trovare un editore. Il libro è uscito solo nel 1975, totalmente ignorato. Nel 1988 è stato pubblicato il secondo volume della trilogia, Fiasco, e nel '90 il terzo, Kaddish for a child not born.
Soltanto con il crollo del Muro l'opera di Imre Kertész ha avuto ampi riconoscimenti, in patria e all'estero. E nel 2002 gli è valsa il premio Nobel per la letteratura. In questi giorni è uscito in italiano Storia poliziesca (Feltrinelli, pp. 79, e8), un romanzo giallo scritto nel '77 e ambientato in uno Stato totalitario, che per aggirare la censura è sudamericano.