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Non uomini e donne in carne e ossa ma silhouettes di un bersaglio. Potenti, agguerriti, ricchissimi e, allo stesso tempo, ombre proiettate sul maxischermo della storia. Nell’immaginario antisemita, gli ebrei perdono gli attributi della quotidianità per assumere quelli di nemici impersonali ma non per questo meno temibili.
Che l’odio contro gli ebrei abbia nutrito il razzismo di destra è verità storica inconfutabile. Più difficile da ammettere, e quasi sempre sussurrata con un certo fastidio, è un’altra verità, gemella della prima, e cioè che anche a sinistra l’erba cattiva dell’antisemitismo sia cresciuta con radici robuste. Già: bei tempi quelli in cui destra e sinistra erano nozioni politiche immediatamente riconoscibili. Vien da pensare che questo “Antisemitismo a sinistra” di Gadi Luzzatto Voghera sia uno dei pochi luoghi concettuali in cui il binomio destra/sinistra riesca ancora a sopravvivere e a conservare una certa plausibilità. La dialettica però è tutta negativa, e la sinistra, quella del progresso e dell’emancipazione degli sfruttati, si ritrova sul banco d’accusa per pensieri, parole, opere e omissioni. Luzzatto Voghera parte, come si deve, dall’Ottocento, quel grembo materno e terribile dell’ideologia da cui sono venute le doglie di tutti gli “ismi” della modernità. Ecco dunque il paradigmatico e barbuto Karl Marx, con i suoi strali di ebreo “ravveduto”: “Il denaro è il geloso Dio d’Israele…la chimerica nazionalità dell’ebreo è la nazionalità del commerciante, del capitalista in genere”. Semplice Selbsthass, quell’odio ebraico di sé che accompagna il fato dell’assimilazione, oppure malattia congenita di chi cercava nemici che si potessero individuare in fretta e altrettanto rapidamente eliminare?
L’autore ha buon gioco nel dimostrare che la disinvoltura con cui l’ebreo viene accusato di perfido affarismo discende dall’antico pregiudizio cristiano contro il popolo deicida.
L’ipotesi è insomma che, già nella sua età formativa, l’ideologia di sinistra abbia raccolto, come una rete a strascico, i preconcetti sugli ebrei già diffusi da secoli nella società europea. Poco importa se larghe fasce della popolazione ebraica, ben lungi dall’essere formate da ricchi capitalisti, fossero segnate da amara povertà. Il meccanismo della generalizzazione era troppo accattivante e radicato perché gli uomini di sinistra rinunciassero allo stereotipo.
Se si volesse evocare –nonostante tutto –il vecchio lessico marxista, si potrebbe insomma definire l’antisemitismo a sinistra come un epifenomeno, ovvero un elemento sovrastrutturale, mentre il razzismo fu componente strutturale delle ideologie reazionarie. Vale a dire che, senza antisemitismo, la macchina teorica di una certa destra non avrebbe funzionato, mentre a sinistra l’antisemitismo sarebbe stato solo un parassita, un’inutile concessione all’atavica legge del pregiudizio. Dalla creazione dello Stato ebraico, la sinistra ha condannato, quasi senza eccezione, la politica israeliana.
Se le ragioni di lealtà filosovietica sono svanite da un pezzo, rimangono vivi gli spettri della retorica antisemita.
Nel libro è inclusa una breve antologia di esempi negativi, con citazioni in cui gl’israeliani sono descritti come portatori di una nuova minaccia tracotante contro la pace mondiale: nient’altro che una versione stantia del complotto plutogiudaico d’infausta memoria.
D’altra parte – e Luzzatto Voghera lo sa bene –criticare Israele non significa necessariamente cadere preda di convulsioni antisemite. Il problema principale su cui il libro vuole attirare l’attenzione è infatti quello dei riflessi incondizionati del linguaggio, che parla spesso al di là delle nostre intenzioni. Rinunciare al lessico genericamente antiebraico è certo misura di civiltà. Basterebbe allora pesare le parole per esorcizzare il demone dell’antisemitismo? Probabilmente no, ma sarebbe almeno un inizio. Il Sole 24 Ore
Giulio Busi