Uccisioni mirate, la giusta risposta ai razzi di Hamas 22/05/2007
Autore: Angelo Pezzana
«Non escluderò alcuna opzione» ha dichiarato Ehud Olmert, «se gli attacchi contro di noi continueranno». Il che significa che Zahal, l'esercito israeliano di difesa, ha ricevuto il via libera a quelle che in linguaggio non politicamente corretto vengono chiamate eliminazioni mirate. Nel mirino non i capi politici di Hamas o Jihad islamica, ma i capi militari, quelli che organizzano gli attacchi quotidiani contro Sderot e le città di frontiera, un lancio ormai quotidiano di missili Qassam che cadono in terra d'Israele, causando panico, danni, feriti fra la popolazione. E ieri anche un morto: un Qassam lanciato dai militanti palestinesi nella Striscia di Gaza ha centrato l'auto di una donna israeliana a Sderot e l'ha uccisa sul colpo. Proprio in mattinata, il ministro per la Sicurezza Avi Dichter aveva affermato che anche lo sceicco Khaled Meshaal, leader di Hamas in esilio, è nella lista degli obiettivi. «Meshaal è più che un bersaglio legittimo», ha detto Dichter alla radio dell'esercito, «e sono convinto che alla prima opportunità ce ne sbarazzeremo, a dispetto delle difficoltà che presenta un compito del genere». Israele è in guerra, ma questa realtà rimane fra le righe delle analisi che leggiamo sui giornali. A Israele, l'abbiamo scritto spesso su queste colonne, non è concesso difendersi, qualunque azione intraprenda viene giudicata «sproporzionata», lo stesso Ministro degli esteri Massimo D'Alema ieri, in partenza per Kabul, ha dichiarato a un giornale radio Rai, pur con l'uso degli eufemismi tipici del suo politichese, che «si dovrebbe fare ogni sforzo per limitare o azzerare il ricorso alla violenza e ad attacchi sul cui carattere mirato, sulla base degli effetti sulla popolazione civile, c'è motivo di dubitare visto il bilancio conseguito». In altre parole, ad Israele non è consentito eliminare chi organizza gli attacchi terroristici contro il suo territorio, con la scusa delle conseguenze sulla popolazione civile. La quale, peraltro, non ci risulta essere tenuta in grande considerazione da chi la usa quale scudo umano, senza alcun rispetto per la vita altrui. Un rispetto che però a Israele viene chiesto, come se esistesse l'alternativa di portare quei birboni, che passano il loro tempo a lanciare missili, in un tribunale per essere giudicati. In quale tribunale, poi? Non certo in quello palestinese, non ci risulta sia operante nemmeno nella guerra tra le diverse fazioni a Gaza. Neppure in quelli egiziani, giordani o sauditi, i cui governi esprimono a ogni piè sospinto preoccupazione per il conflitto interpalestinese, ma si guardano bene dal mandare una forza di pace per disarmare le fazioni. I palestinesi, meglio lasciarli nel loro brodo, tanto all'opinione pubblica internazionale non avanzerà richieste al mondo arabo. Si limiterà a stigmatizzare le decisioni israeliane, chiederà che vengano inviati «aiuti umanitari», poco importa se poi i dollari verranno spesi in armi, l'importante è che la vittima sia sempre araba e l'aggressore Israele. Ma perché gli eserciti egiziani, giordani, siriani, sauditi non entrano, fraternamente, a Gaza e danno una mano per fermare la carneficina Hamas-Fatah? E, già che ci sono, perché non smantellano le rampe di lancio dei Qassam puntati su Israele? Quella sì sarebbe una efficace «forza di pace», e magari Gaza si troverebbe davanti al problema reale di dimostrare al mondo intero se i palestinesi sono un popolo in grado di costruire uno Stato, oppure eccellono solo nel terrorismo. Contro Israele e contro se stessi.

da Libero del 22 maggio 2007