Pubblichiamo un articolo di Giorgio Israel apparso in inglese su Covenant, Global Jewish Magazine vol. 2, Issue 1, april 2007, Iyar 5767, article 4/9 http://www.covenant.idc.ac.il/en/2007/issue1/israel.htmlL’ebraismo italiano ha rappresentato sempre un fenomeno peculiare nel panorama mondiale dell’ebraismo. Non c’è dubbio che questa peculiarità sia stata dovuta alla presenza della Chiesa Cattolica. Ne costituisce una rappresentazione emblematica la storia e la condizione della comunità ebraica romana. Ciò è stato molto bene descritto da Léon Poliakov nella sua
Storia dell’antisemitismo. La comunità ebraica romana è certamente l’unica al mondo che abbia mantenuto una residenza invariata nello stesso luogo, fin dai tempi di Giulio Cesare e abbia conservato una notevole continuità etnica, perpetuandosi mentre era costretta a mantenere scarsissimi contatti con l’esterno. Essa non è mai stata allontanata o scacciata, ma è stata mantenuta in una condizione di segregazione, di avvilimento e di degrado per dare al mondo l’esempio concreto dello stato deplorevole in cui doveva ridursi chi si ostinava a negare la divinità di Gesù Cristo. In conseguenza di ciò, la comunità ebraica romana ha presentato caratteristiche di depressione e impoverimento culturale che hanno pochi confronti. Ben diversa è stata la situazione nel resto dell’Italia, che è stato al contrario il crocevia di interazioni culturali molto feconde. Queste interazioni si sono avute con l’ebraismo spagnolo, già a partire dall’XI secolo e poi molto intensamente dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, nel 1492, che fece dell’Italia un punto di transito o di nuova residenza dei profughi. Ma si ebbero anche importanti interazioni con l’Europa orientale soprattutto per il tramite delle città di Trieste e Venezia. L’Italia è un paese dove hanno soggiornato e prosperato illustri kabbalisti, come Abraham Abulafià o Moshe Hayim Luzzatto e dove si sono fecondati rapporti tra la Kabbalah ebraica e la Cabala cristiana rappresentata in particolare da Pico della Mirandola. In tal senso, il pensiero ebraico ha dato un significativo contributo allo sviluppo del pensiero rinascimentale.
Questa varietà e molteplicità di esperienze, il carattere spesso transitorio delle presenze (con la notevole eccezione di Roma) hanno dato luogo a una comunità tanto esigua quanto variegata e poco omogenea. Persino oggi, dopo un secolo e mezzo di unità nazionale, le differenze non sono affatto livellate e le diversità fra le comunità ebraiche di città come Roma, Milano, Torino o Livorno si fanno sentire in modo assai sensibile. Esiste, ad esempio, una diffidenza delle piccole comunità nei confronti delle due maggiori comunità, Roma e Milano, e soprattutto nei confronti di Roma, la cui preponderanza numerica soverchiante è vista quasi come una minaccia.
La costituzione in Italia di un regno napoleonico, agli inizi dell’Ottocento, che procedette senza indugio ad abbattere le mura dei ghetti e ad introdurre un’emancipazione completa, sul modello francese, spinse gli ebrei italiani a un’adesione rapida e convinta ai principi della democrazia. Ancora una volta il caso di Roma fu peculiare, perché, dopo il ritorno della città sotto il regime papale, le porte dei ghetti furono aperte soltanto nel 1867 con l’annessione della città al Regno d’Italia e la fine definitiva del potere temporale della Chiesa. Comunque, l’esperienza napoleonica, l’atteggiamento aperto della monarchia sabauda e il manifestarsi di una concreta possibilità di integrazione nel nuovo stato nazionale, spinsero gli ebrei italiani verso un processo di assimilazione sempre più marcato. Questo processo ebbe conseguenza l’allentamento dei legami con le radici religiose e culturali ebraiche. Si verificò, per la comunità ebraica italiana, quel processo così bene descritto da Gershom Scholem in relazione al misticismo ebraico: quando, verso la fine del secolo XVIII, gli ebrei dell’Europa occidentale imboccarono con tanta decisione la via della cultura europea, la sfera della religiosità, soprattutto di quella mistica, fu sentita come estranea e perturbatrice, talmente estranea al razionalismo illuminato da dover essere abbandonata il più rapidamente possibile. «Ciò che restava aveva l’aspetto di un campo di macerie, impervio e ricoperto di sterpaglie, in cui solo qua e là apparivano immagini del sacro bizzarre, che offendevano il pensiero razionale».
Nelle mie ricerche sulla storia della scienza italiana dopo l’unificazione del paese sotto la monarchia sabauda, sono rimasto sempre colpito dal fatto che i tanti scienziati ebrei italiani di primo piano – soprattutto in matematica, in fisica, in biologia, ma anche nel campo delle scienze umane e della filosofia – non manifestassero la minima adesione o attaccamento alle proprie radici ebraiche. Negli scritti e nelle lettere di personalità di grande rilievo come Federigo Enriques, Vito Volterra (il celebre matematico considerato come il massimo rappresentante della scienza italiana, e difatti detto il “Signor Scienza Italiana”), o Tullio Levi-Civita, non ricorre una sola volta la parola “ebreo” o “ebraismo”.
La completa ed entusiastica integrazione dell’ebraismo italiano nella società nazionale proseguì anche sotto il regime fascista, almeno fino a che le politiche razziali di quest’ultimo non cominciarono ad assumere dei toni antisemiti. Le prime campagne antisemite scatenate negli anni trenta non sembravano ancora essere condivise da Mussolini e una parte consistente dell’ebraismo italiano coltivò l’illusione che i gruppi che le alimentavano sarebbero restati marginali nel contesto del fascismo. È fuori di dubbio che un cambiamento importante nell’atteggiamento della comunità ebraica italiana si ebbe con la diffusione del sionismo e in relazione ai rapporti altalenanti e poi definitivamente cattivi che la dirigenza del sionismo ebbe con Mussolini. Una parte consistente dell’ebraismo italiano, soprattutto quella più integrata o addirittura legata al fascismo, rifiutò energicamente la prospettiva sionista e riaffermò il suo legame con la nazione. D’altra parte, l’adesione al sionismo di strati significativi dell’ebraismo italiano fu un pretesto per le correnti antisemite del fascismo per mettere sotto accusa gli ebrei in quanto minoranza infedele alla nazione. In definitiva, questo argomento fu fatto proprio da Mussolini quando decise di lanciare una campagna razziale antisemita e di promuovere una legislazione razziale contro gli ebrei. Questa svolta del regime, che avvenne a partire dal 1937 e si concretizzò nelle leggi razziali che iniziarono ad essere promulgate nel 1938, gettò in uno sconforto incredulo gran parte della comunità ebraica italiana. Ne fu simbolo estremo il suicidio dell’editore Formiggini, che era stato fino a quel momento un fascista convinto, e che si gettò dalla torre della Ghirlandina di Modena.
Ho ricordato rapidamente questi fatti perché segnano un momento di svolta nella coscienza della comunità ebraica italiana e di cui è necessario tener conto per comprendere gli sviluppi che si verificano nella seconda metà del Novecento, fino a quelli più recenti. Si incrina il sentimento di convinta adesione alla prospettiva di integrazione ed assimilazione, la comunità si spacca tra sionisti e antisionisti, fascisti ed antifascisti, e, come conseguenza finale delle leggi razziali, si diffonde un forte sentimento antifascista nell’ebraismo italiano. Coloro che non aderiscono totalmente all’ideale sionista, emigrando in Palestina, trovano un nuovo fondamento di identificazione con la società nazionale negli ideali dell’antifascismo e della democrazia. Si manifesta inoltre, con la ripresa di un sentimento di identità, una certa ripresa dell’interesse per la religione e la cultura ebraica.
Dal punto di vista politico, l’ebraismo italiano del secondo dopoguerra è prevalentemente schierato con la sinistra. Questo è conseguenza della frattura ormai assoluta con la destra postfascista e della difficoltà di riconoscersi nelle posizioni di un partito come la Democrazia Cristiana, in un periodo in cui le manifestazioni dell’antigiudaismo cattolico non sono affatto spente nella Chiesa e, in generale, nel mondo cattolico. Resta aperto soltanto un possibile rapporto con i partiti della sinistra, tra i quali quelli moderati e non soggetti all’egemonia comunista rappresentano una ristretta minoranza. È indubbio che una parte molto consistente dell’ebraismo italiano, soprattutto nel periodo 1945-1967, si sia riconosciuto nelle posizioni politiche dei partiti comunista e socialista, sia pure con non pochi disagi dovuti alle posizioni ambigue mantenute da questi partiti nei confronti delle politiche antiebraiche perseguite dal regime sovietico, in particolare sotto Stalin. La questione della condizione degli ebrei in Unione Sovietica è stata un motivo di profondo malessere per l’ebraismo italiano e tuttavia non ha impedito un’adesione prevalente ai partiti della sinistra.
Le cose cambiano in modo sempre più netto a partire dal 1967.
L’atteggiamento di forte ostilità nei confronti di Israele assunto dalla sinistra comunista durante la Guerra dei Sei Giorni crea un nuovo malessere e nuove grandi difficoltà. Malgrado questo non può parlarsi di una vera frattura tra l’ebraismo italiano e la sinistra, perché l’aspra critica nei confronti di Israele si mantiene sul terreno essenzialmente politico, anche da parte comunista, e non coinvolge mai una critica del sionismo e mantiene con una certa cura le distanze da ogni discorso relativo agli ebrei o all’ebraismo. Ma le cose cambiano rapidamente negli anni successivi, in particolare con la condanna da parte dell’ONU del sionismo come una “forma di razzismo”, in una mozione che, com’è noto, fu poi annullata. La mancata presa di distanza dalla sinistra da questa mozione, ed anzi il suo sostanziale avvallo, segnano – fin dalla metà degli anni settanta – l’emergere di un discorso che non riguarda più soltanto una critica della politica dello stato di Israele, bensì la natura dell’ideologia fondatrice dello stato ed aprono la strada a un discorso critico e persino polemico sugli ebrei e l’ebraismo e incanalano – sia pure in molti casi senza una cattiva intenzione soggettiva – vecchie tematiche apertamente antisemite. Pesa in tutto ciò la sostanziale disattenzione che la sinistra comunista ha avuto, per parecchi decenni, per la vicenda dello sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e il silenzio totale sulle politiche razziali del fascismo. In breve, a partire dalla metà degli anni settanta viene alla luce un problema della sinistra con gli ebrei, che si mescola con il problema del sionismo e di Israele, e che apre dolorose fratture e un rapporto molto più tormentato e difficile di quanto era stato fino a quel momento. Tuttavia, può ben dirsi che l’adesione dell’ebraismo italiano agli ideali dell’antifascismo – che vengono spesso sommariamente identificati con con gli ideali della sinistra, o addirittura del comunismo – non viene meno e si mantiene maggioritaria. Ancora negli anni novanta, la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Tullia Zevi, sintetizza questa situazione con un’espressione clamorosa: “gli ebrei hanno i cromosomi di sinistra”. Ma, sia pur lentamente, il rapporto tra ebraismo italiano e sinistra conosce nel corso di un trentennio un progressivo declino che conduce agli inizi di questo secolo a un vero e proprio ribaltamento, portando le posizioni vicine alle sinistra in minoranza, come è stato sanzionato dal recente congresso dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane svoltosi a Roma nel luglio 2006.
Le tappe di questa crisi sono rappresentate soprattutto dalla guerra del Libano nel 1982 e dalle fasi più critiche dell’Intifada. Durante la guerra del Libano del 1982, avvenne un episodio molto traumatico: nel corso di un corteo dei tre principali sindacati nazionali, una bara fu deposta davanti al Tempio Maggiore di Roma, e precisamente sotto la lapide che ricorda i deportati nei campi di sterminio nazisti. Malgrado un atto di riparazione e riconciliazione con il Rabbino Capo di Roma, Elio Toaff, da parte della dirigenza sindacale, questo episodio lasciò una traccia molto seria. Inoltre, esso segnò l’inizio di una confusione sempre più marcata tra questione ebraica e questione israeliana nell’ambito della sinistra. La diffusione di stereotipi tipicamente antisemiti – come l’accusa non soltanto ad Israele, ma agli ebrei, di fare oggetto i palestinesi delle stesse persecuzioni che gli ebrei avevano subito da parte dei nazisti – ha avuto corso sempre più largo negli ultimi venticinque anni. Questo fatto si è collegato alla diffusione crescente di tematiche antisemite da parte della propaganda proveniente dal mondo politico arabo e islamico, con cui la sinistra italiana ha sempre intrattenuto stretti rapporti: diffusione dei “Protocolli dei Savi di Sion”, presentati come un testo autentico, insistenza sul tema dei delitti rituali e della profanazione delle ostie, e consimili tematiche tratte dal più classico armamentario dell’antisemitismo religioso e non. Purtroppo, buona parte della sinistra – in particolare quella comunista e post-comunista – ha manifestato una scarsa capacità di filtrare questa propaganda ed anzi, in alcuni casi estremi, se ne è fatta portavoce. Occorre comunque dire che non si sono mai raggiunti livelli di ostilità come in altri paesi, e in particolare in Francia.
Questi sviluppi hanno condotto a un progressivo distacco di una parte consistente dell’ebraismo italiano dal tradizionale rapporto privilegiato con la sinistra. Questo distacco si è concretamente manifestato anche nello spostamento della più grande comunità italiana, quella di Roma, su posizioni vicine al centro-destra, da almeno cinque anni. Si è dapprima avuto il passaggio del governo della comunità a una maggioranza orientata verso il centro-destra e poi, nelle successive elezioni, ad un governo di coalizione tra centro-destra e centro-sinistra in cui comunque la prima componente è preponderante. Si è inoltre già accennato al fatto che, nel congresso dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, tenutosi a Roma nel luglio 2006, è prevalsa per la prima volta una maggioranza orientata verso il centro-destra, anche se pure in questo caso è stata trovata la via di una gestione unitaria e non conflittuale.
Questi mutamenti sono stati senza dubbio favoriti dal cambiamento della linea di politica estera verificatosi tra il 2001 e il 2006 da parte del governo presieduto da Silvio Berlusconi, il quale ha seguito la linea più comprensiva delle ragioni di Israele di qualsiasi governo italiana da parecchi decenni a questa parte. La politica estera dei governi italiani, a partire dagli anni settanta – e in particolare da quando si verificò la convergenza politica tra partito democristiano e partito comunista, detta “compromesso storico” – si era costantemente ispirata a un punto di vista fortemente filo-arabo e molto critico nei confronti delle politiche di tutti i governi israeliani, indipendentemente dai loro orientamenti. Il recente avvento del nuovo governo di centro-sinistra presieduto da Romano Prodi ha richiuso la parentesi apertasi nel 2001, riportando la politica estera nel solco della tradizionale linea filo-araba e filo-palestinese. È indubbio che questo sviluppo abbia nuovamente aperto un problema tra una parte maggioritaria dell’ebraismo italiano e la sinistra, a seguito della delusione provocata dallo schierarsi del governo su posizioni molto critiche di Israele, malgrado le promesse reiterate di voler seguire un atteggiamento di amicizia e comprensione.
Vedono gli ebrei italiani un futuro nel loro paese? Nonostante la diffusione di pregiudizi che vengono veicolati attraverso un atteggiamento “antisionista” e di critica a Israele ma di fatto riprendono i soliti stereotipi antisemiti, la situazione italiana è senza alcun dubbio una delle più tranquille e favorevoli d’Europa. Ben altrimenti difficile è la situazione in Spagna e in Francia. Non a caso, la comunità ebraica francese – la più numerosa d’Europa – conosce un fenomeno di emigrazione verso Israele di notevole rilevanza. In termini assoluti e percentuali si tratta di cifre modeste, ma esse sono assai significative e testimonianza di un profondo malessere, se si tiene conto che stiamo parlando di una comunità profondamente integrata nella realtà nazionale. Nulla del genere accade in Italia, dove l’emigrazione verso Israele riguarda pochissimi casi. Anche le oscillazioni politiche di cui abbiamo parlato non hanno determinato svolte drammatiche di atteggiamento perché, malgrado le tendenze filo-arabe e un inquinamento antisionista-antisemita presente in una parte significativa dell’estrema sinistra o del mondo cattolico di sinistra, esiste una tendenza ad un certo moderatismo nella politica italiana e una fascia consistente di persone molto comprensive delle ragioni di Israele e vigilanti nei confronti del pericolo di un risorgere dell’antisemitismo che è distribuita in tutti i partiti politici. Una maggiore preoccupazione desta la crescita dell’immigrazione islamica, che comporta la presenza di gruppi fortemente ostili a Israele e agli ebrei e che non mancano di manifestare in vari modi questi sentimenti. Il caso più clamoroso, in questo senso, è dato dalla presenza di un organizzazione, l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (Ucoii), nell’ambito della Consulta Islamica creata presso il Ministero degli Affari Interni. Questa organizzazione si è resa responsabile di un proclama, pubblicato con rilievo sulla stampa a sue spese, in cui si tacciava Israele e il sionismo di essere il nuovo nazismo. L’Unione della Comunità Ebraiche Italiane è intervenuta energicamente e si è aperta una grave crisi nella Consulta Islamica che non è stata ancora sanata.
Si può quindi concludere che non è la situazione specifica del paese a destare le maggiori preoccupazioni della comunità ebraica italiana, malgrado tutti gli aspetti critici che abbiamo messo in luce e le specifiche difficoltà di rapporti con taluni ambienti della sinistra e dell’attuale governo. La maggiori preoccupazioni sono provocate dal contesto internazionale che si è determinato dopo l’11 settembre, dalla gravità della situazione mediorientale e soprattutto dalla connessione che l’integralismo islamico ha stabilito – soprattutto con i discorsi e gli atti del presidente iraniano Ahmadinejad – tra questione mediorientale e questione ebraica, fino alla messa in discussione della verità della Shoah. Si tratta di processi che hanno una portata mondiale e che coinvolgono l’ebraismo mondiale nel suo complesso ed è evidente che la comunità ebraica italiana si sente pienamente coinvolta da questi processi. Tanto più questa preoccupazione è viva in Europa a causa del diffondersi nel continente di un atteggiamento passivo e persino remissivo nei confronti dell’integralismo islamico e da una diffusione marcata di atteggiamenti antiamericani. Situazioni gravissime come quella olandese ed episodi preoccupanti, come quello di cui è stato vittima l’intellettuale francese Redeker che, per aver scritto un articolo critico dell’islam, è costretto a vivere in clandestinità, destano il timore che simili processi degenerativi possano dilagare in tutto il continente, anche in situazioni per ora relativamente tranquille come quella italiana. È una condizione, lo ripeto, che riguarda in generale tutto il continente europeo, e che desta anche nella comunità ebraica italiana un sentimento di malessere e di inquietudine circa le prospettive future.
Giorgio Israel