Saul Israel - Con le radici in cielo 17/05/2007
Autore: Giorgia Greco

Con le radici in cielo -  Saul Israel
Marietti

U n romanzo va giudicato come, appunto, un romanzo, ma è spesso difficile non vedervi altro, e così è per il romanzo di Saul Israel, Con le radici in cielo (editore Marietti). Sotto il titolo bellissimo vi si ritrova, infatti, la storia della dispersione di uno dei nuclei ebraici più rilevanti del Mediterraneo, gli ebrei di Salonicco. Per averne un'idea si legga Elias Canetti sulla sua città natale di Rustschuk, sul Danubio, in Bulgaria. Anche lì «vivevano persone di origine diversissima»: bulgari, turchi, greci etc. Anche lì si erano stabiliti molti ebrei, detti «spagnoli», perché discendenti di quelli espulsi dalla Spagna nel 1492. Anch'essi «erano ebrei osservanti, interessati alla vita della loro comunità», che, «pur senza fervori eccessivi, era al centro della loro esistenza». Sefarditi per la «loro tradizione spagnola», conservata pure nella lingua, essi «si consideravano ebrei di un tipo un po' speciale» e «guardavano gli altri ebrei (gli ashkenazi) un po' dall'alto in basso». Gli ebrei di cui parla Israel non erano diversi. Con una particolarità, tuttavia: a Salonicco essi erano il 70 per cento della popolazione. Su di essi, come su tutta l'Europa, si abbatté nel 1914 il turbine della Grande guerra; e, come suol dirsi, nulla più fu come prima. Dopo la guerra e l'enorme incendio che nel 1917 devastò la città, dice Israel, «la comunità di Salonicco si era sgretolata in alcuni monconi che cercavano di inserirsi nelle diverse diaspore occidentali o americane, pur conservando intatte le loro tradizioni ed abitudini secolari». Il nazionalismo greco non tollerava più la singolare fisionomia etnico-culturale della seconda città del Paese.
La famiglia Yacoél, al centro del romanzo di Israel, si divide in due rami, a Parigi e a Roma. In Italia nel 1914 si era pensato di emigrare, temendo che mutassero in Grecia le cose. Poi l'Italia entrò in guerra, e molti ebrei di Salonicco, di cittadinanza italiana, furono chiamati alle armi. A guerra finita, sembrò tornata l'Italia di prima. Senonché, di lì a poco, sopravvenne il fascismo. Per il momento non ve ne furono ripercussioni (molti ebrei dei più ricchi lo avevano lautamente sovvenzionato). Alla fine vi furono le leggi razziali e, col nazismo, la Shoah. David Yacoél, dice Israel, arrestato e portato in un commissariato di polizia, «ne fu inghiottito come da una voragine».
La storia, dunque, di milioni di ebrei, narrata, però, sulla base di un'esperienza personale. Venuto da Salonicco in Italia nel 1916, Israel fu aiuto nell'Istituto di Fisiologia generale dell'Università di Roma, ma se ne dimise per dissensi col direttore, Sabato Visco, che fu poi un fautore delle leggi razziali. Molti degli Israel furono inghiottiti dalla stessa voragine di David Yacoél. E l'esperienza diretta si sente qui pur nel ritmo calmo (forse troppo!) della narrazione. Che ha, tuttavia, come si è detto, altri motivi di attrazione.
La Salonicco ebraica pre-1914, anzitutto, che vive nella ripetitività di una tradizione plurisecolare, e ne riscatta la monotonia con l'intensità di una fede profonda, praticata con pari convinzione. Ma quel che davvero sorprende è che già prima del 1914 si vedono all'opera tutte le domande posteriori dell'ebraismo: rassegnazione? Sionismo? Comunismo? Integrazione in Paesi liberaldemocratici? Malgrado queste avvisaglie, gli eventi dal 1918 al 1939 e poi fino alla Shoah si abbattono, però, sugli ebrei con la fatalità di una forza misteriosa; e Israel ce ne dà una testimonianza dal di dentro, dal profondo di un cuore antico come quello sefardì di Salonicco. Ne nasce un assiduo discorrere di teologia, filosofia della storia, antropologia, morale, rapporti fra cultura biblica e cultura moderna e laica. Questo grava, certo, sulla narrazione, e suona lontano alla sensibilità europea moderna. Si capisce, però, ben presto che in quel discorrere si manifesta la possente carica umana e ideale di una fede che chiede di essere, ed è, vissuta in comunità, dai più ai meno credenti e praticanti. E di qui anche un altro paradosso. Ovunque siano dispersi, gli ebrei rivelano un'industriosa capacità di adattarsi e di prosperare, anche fuori misura, negli ambienti più imprevisti. L'ebraismo
sefardì di Salonicco, compatto nel suo localismo fideista e tradizionalista, ha relazioni importanti coi grandi centri ebraici di affari di Parigi, di Londra, d'America. La semplicità fideista non significa inettitudine alla modernità o provincialismo di prospettive, e si coniuga con l'immagine, che Israel pure ci trasmette, di un ebraismo molto differenziato nelle condizioni sociali e nelle idee.
Si spiega meglio, così, che questo ebraismo possa spesso ingannarsi, sbagliare, fabbricare a se stesso i suoi mali, ma anche sostenere le avversità della sua storia drammatica, eppure non dolente, e non sa disertare anche quando accede ad altre culture e lascia le rive d'Israele per quelle della modernità più avanzata. A questa modernità figli e nipoti di quella fede si sono rivelati più che idonei e hanno saputo dare un contributo più che vigoroso. Ma che quella fede abbia «le radici in cielo», come dice Israel, è proprio ciò che questo romanzo rivela, al di là del suo qualsiasi merito letterario, se lo si legge nel quadro più generale della storia cristiana e occidentale, della quale l'ebraismo di cui parla Israel è stato non piccola parte, proiettandovi ancor oggi il riflesso di un'alta idea dell'uomo e del suo destino.

Giuseppe Galasso, dal Corriere della Sera del 17 maggio 2005