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Uno sconosciuto dalla pelle olivastra bussa alla porta, “nei suoi occhi brucia un fuoco pallido, passionale”. E’ shabbat, viene accompagnato in cucina e si prepara per lui un piatto con cholent e challa. Il mendicante rifiuta però di toccare il pasto: “Non ha fame?” gli domanda il padrone di casa. “Oh, sì, ho fame e anche sete. Ma non di cibo ma di parole e di volti. Io vado in giro per il mondo alla ricerca di storie”.
Con questo apologo, che apre il libro, Elie Wiesel dà voce a uno dei temi fondamentali della propria poetica. “Dopo la notte” si potrebbe definire un meta-racconto, una narrazione sull’arte del narrare e sulla necessità di redimere la fatica di vivere attraverso l’antica medicina della parola.
Il protagonista, che porta il nome raro e impegnativo di Gamaliele, è un uomo in fuga da se stesso, insoddisfatto del proprio mestiere e chiuso in una solitudine rancorosa. E’ scrittore “per conto terzi”, e cioè imbastisce storie sdolcinate per venderle a letterati di scarso talento, che le pubblicheranno col loro nome. Nei ritagli di tempo lavora però a un suo “libro segreto”, l’opera che dovrà dargli fama e a cui affida le proprie visioni allucinate ed estreme.
Col suo stile consueto, metà tra narrativa e pamphlet moraleggiante, Wiesel abbozza il ritratto, per certi versi autobiografico, di uno sradicato. Gamaliele ha perso i genitori nella Shoah ed è sopravissuto fortunosamente nella Budapest occupata dai nazisti. Dopo la guerra, Parigi lo accoglie con burocratica indifferenza. E nemmeno negli Stati Uniti, dove approda ormai disilluso, riesce a trovare una propria normalità. Sebbene si sia costruito conoscenze, abitudini e persino ubbie, questo ebreo crudelmente autocritico continua a sentirsi un apolide: “Il rifugiato in lui resta in agguato, pronto a dire la sua per scardinare preconcetti”. La condizione ebraica è vissuta qui soprattutto attraverso i vuoti e le assenze. Non sono l’ottimismo della fede né quello della tradizione a dare a Gamaliele un senso di appartenenza. Piuttosto è la consapevolezza della perdita e dell’estraneità che lo induce a “sfuggire a un esilio per finire in un altro, perché non si sente da nessuna parte a casa sua”.
Eppure, in questa cornice negativa, l’impulso a trasformare la propria vicenda nel filo di un racconto libera un’energia di redenzione.
Non importa se il destino del protagonista si perde in un labirinto d’insensatezza: raccontare e sgranare a una a una le parole permette di rendere umana e comunicabile anche l’insensatezza.
In alcuni punti, la scrittura di Wiesel è un po’ faticosa e le pene d’amore di Gamaliele sono forse sovrabbondanti ma l’intuizione di fondo è convincente. L’insistenza sulla fabula come via d’uscita dal disorientamento ricollega Wiesel a quella grande tradizione di cantastorie ebraici che risale ai maestri chasidici dell’Europa orientale e, più indietro, ai rabbi dell’aggadah.
In questo mondo imbastito di parabole, la verità non è quella oggettiva degli storici e dei filologi. Nel romanzo capita così d’incontrare fonti apocrife, come un falso libro cabalistico intitolato Lo sguardo dell’abisso. “Chi lo possiede – scrive Wiesel - ha il potere di foggiare i sogni a modo suo, rendendoli amari per gli empi e raggianti per i giusti”. Un libro impagabile, a trovarlo davvero.
Giulio Busi
Il Sole 24 ore