Elie Wiesel Dopo la notte 17/04/2007
Autore: Giorgia Greco

Dopo la notte                      Elie Wiesel

Garzanti                               Euro 9,00

 Uno sconosciuto dalla pelle olivastra bussa alla porta, “nei suoi occhi brucia un fuoco pallido, passionale”. E’ shabbat, viene accompagnato in cucina e si prepara per lui un piatto con cholent e challa. Il mendicante rifiuta però di toccare il pasto: “Non ha fame?” gli domanda il padrone di casa. “Oh, sì, ho fame e anche sete. Ma non di cibo ma di parole e di volti. Io vado in giro per il mondo alla ricerca di storie”.

Con questo apologo, che apre il libro, Elie Wiesel dà voce a uno dei temi fondamentali della propria poetica. “Dopo la notte” si potrebbe definire un meta-racconto, una narrazione sull’arte del narrare e sulla necessità di redimere la fatica di vivere attraverso l’antica medicina della parola.

Il protagonista, che porta il nome raro e impegnativo di Gamaliele, è un uomo in fuga da se stesso, insoddisfatto del proprio mestiere e chiuso in una solitudine rancorosa. E’ scrittore “per conto terzi”, e cioè imbastisce storie sdolcinate per venderle a letterati di scarso talento, che le pubblicheranno col loro nome. Nei ritagli di tempo lavora però a un suo “libro segreto”, l’opera che dovrà dargli fama e a cui affida le proprie visioni allucinate ed estreme.

Col suo stile consueto, metà tra narrativa e pamphlet moraleggiante, Wiesel abbozza il ritratto, per certi versi autobiografico, di uno sradicato. Gamaliele ha perso i genitori nella Shoah ed è sopravissuto fortunosamente nella Budapest occupata dai nazisti. Dopo la guerra, Parigi lo accoglie con burocratica indifferenza. E nemmeno negli Stati Uniti, dove approda ormai disilluso, riesce a trovare una propria normalità. Sebbene si sia costruito conoscenze, abitudini e persino ubbie, questo ebreo crudelmente autocritico continua a sentirsi un apolide: “Il rifugiato in lui resta in agguato, pronto a dire la sua per scardinare preconcetti”. La condizione ebraica è vissuta qui soprattutto attraverso i vuoti e le assenze. Non sono l’ottimismo della fede né quello della tradizione a dare a Gamaliele un senso di appartenenza. Piuttosto è la consapevolezza della perdita e dell’estraneità che lo induce a “sfuggire a un esilio per finire in un altro, perché non si sente da nessuna parte a casa sua”.

Eppure, in questa cornice negativa, l’impulso a trasformare la propria vicenda nel filo di un racconto libera un’energia di redenzione.

Non importa se il destino del protagonista si perde in un labirinto d’insensatezza: raccontare e sgranare a una a una le parole permette di rendere umana e comunicabile anche l’insensatezza.

In alcuni punti, la scrittura di Wiesel è un po’ faticosa e le pene d’amore di Gamaliele sono forse sovrabbondanti ma l’intuizione di fondo è convincente. L’insistenza sulla fabula come via d’uscita dal disorientamento ricollega Wiesel a quella grande tradizione di cantastorie ebraici che risale ai maestri chasidici dell’Europa orientale e, più indietro, ai rabbi dell’aggadah.

In questo mondo imbastito di parabole, la verità non è quella oggettiva degli storici e dei filologi. Nel romanzo capita così d’incontrare fonti apocrife, come un falso libro cabalistico intitolato Lo sguardo dell’abisso. “Chi lo possiede – scrive Wiesel  - ha il potere di foggiare i sogni a modo suo, rendendoli amari per gli empi e raggianti per i giusti”. Un libro impagabile, a trovarlo davvero.

Giulio Busi

Il Sole 24 ore