Irène Némirovsky Jezabel 10/04/2007
Autore: Giorgia Greco

Jezabel      Irène Némirovsky

Traduzione di Laura Frausin Guarino

 

Adelphi

 

 

Negli anni Trenta Gladys Eysenach, maliarda non più giovane ma ancora bella,  è processata per l’uccisione di un ragazzo, tale Bernard, un popolano qualsiasi, forse un gigolo. Parigi esulta per il succoso affaire, e gli elementi per godere ci sono tutti. Gladys ha il fascino delle femmes fatales, la sua fama di seduttrice è densa e pluriennale, le sue fastose toilettes fanno scalpore e il suo accompagnatore ufficiale è un aitante nobile italiano. Si suppone che la vittima fosse un amante clandestino della signora, la quale non denuncia, non si difende e accetta immota la condanna.

 

Ma niente è come sembra nei romanzi di Irène Némirovsky: i presupposti dell’omicidio sono intricati e cupi. Così, come in un lungo flash-back, in Jezabel scatta la vera storia di Gladys, sacerdotessa del culto di sé, avida di passioni e prigioniera, come la matrigna di Biancaneve, della propria immagine allo specchio. Donna che non rinuncia mai al “mestiere di donna”, Gladys nega la condanna dell’invecchiamento, “figurandosi che per lei la morte sarebbe arrivata prima della fine del piacere”. E’ come l’ombra di Jezabel, che nell’Athalie di Racine compare in sogno alla figlia, con la sua finta bellezza “mantenuta con cure, con espedienti labili/per riparar degli anni le sfide irreparabili”.

 

Assuefatta ai corteggiatori “come un alcolizzato al vino”, per inseguirli Gladys massacra chi le è accanto: innanzitutto la figlia, la cui morte tragica è connessa al delirante egocentrismo materno. Nelle conseguenze di questa macchia sanguinosa si cela il movente dell’assassinio di Bernard, svelato al lettore nelle ultime pagine di questo libro cristallino e feroce per ingannevole leggerezza, e prodigiosamente preveggente nel suo tema centrale: l’affanno di un’inattingibile eterna giovinezza. Quasi un’anticipazione del manicomio di lifting che infesta l’era del post-femminismo.

 

Nata a Kiev nel 1903 e morta nel 1942 ad Auschwitz, l’ebrea ucraina Némirovsky, tornata alla ribalta dopo un oblio di mezzo secolo, è stata rilanciata in Italia da Adelphi sull’onda del successo postumo conquistato in Francia, grazie a libri come Il Ballo, Suite francese (definito dai critici d’Oltralpe come il massimo evento letterario sull’Olocausto dopo Il diario di Anna Frank), il magistrale David Golder e il minuscolo e fulminante La moglie di Don Giovanni, che nella sua delittuosa frivolezza ha qualche analogia con Jezabel. Figlia di un ricco banchiere e allevata nell’entourage dello Zar, Irène fuggì a Parigi al tempo del terremoto bolscevico, inebriandosi di fitzgeraldiane notti follie di escursioni effimere in Costa Azzurra, un po’ come l’eroina di Jezabel. Poi si sposò, mise al mondo due figlie e si dedicò totalmente alla scrittura. Gli arazzi dei suoi romanzi intarsiano soavità apparenti con un’effervescenza disperatamente ossessiva. Vi pulsano acume, intensità drammatica e una capacità di analisi di percezioni ed emozioni paragonabile a quella di Schnitzler e di Zweig.

 

Per la protagonista di Jezabel, Irène contò su un ottimo modello: tutto di Gladys, incluso il rigetto “mortificante” dell’essere nonna, somiglia all’autentica madre della Némirovsky, scrittrice profetica anche nell’anticipare l’indifferenza della propria genitrice verso le due nipoti. Egoista sino alla perversione, fiera di trascurare la figlia per i suoi molti amanti, rabbiosamente assorta nel tentativo di arginare il declino della propria femminilità, la madre della Némirovsky morì centenaria, dopo aver rifiutato di occuparsi delle figlie della defunta Irène scampate all’Olocausto. Già il crudelissimo Il ballo era un manifesto di vendetta dell’autrice nei confronti di sua madre. Con Jezabel il ritratto è compiuto: l’accanimento è spietato, il verdetto implacabile. Spetta alla letteratura la nemesi che non riuscì alla vita.

 

 

Leonetta Bentivoglio

La Repubblica