Georges Bensoussan Il sionismo. Una storia politica e intellettuale. 1860-1940 10/04/2007
Autore: Giorgia Greco
Georges Bensoussan
Il sionismo. Una storia politica e intellettuale. 1860-1940
(Einaudi, euro 130)

L´aggettivo, secondo una moda insensata, viene usato spesso come un insulto: Sionista. Un termine stigmatizzato, demonizzato. Non sono solo il mondo arabo o la piazza estremista europea, ma anche gli organismi internazionali come l´Onu (il fatto più clamoroso è l´equiparazione del sionismo al "razzismo" del ‘75 - risoluzione poi cancellata nel ‘91), a rigettare e a condannare la storia straordinaria di un popolo che si risveglia alla sua identità nazionale dopo due millenni di dispersione, miseria, ghetti. Georges Bensoussan, professore di storia e membro del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Parigi, autore di numerosi testi sulla Shoah, ripercorre fin nei minimi particolari il cammino del movimento di rinascita ebraico e, da uomo evidentemente di sinistra, risponde, anche se non è questo il suo obiettivo dichiarato, alle accuse che da anni sente rimbalzare, come fantasmi tormentosi, tra le fila del mondo a cui appartiene: sionismo come movimento coloniale, insensibile al problema arabo, nato non per una forza vitale prorompente ma come reazione all´antisemitismo e aiutato nel raggiungimento del proprio obiettivo solo dal "regalo" dell´Europa all´indomani della Shoah.
Bensoussan non vuole però cadere nella risposta partigiana di chi difende le ragioni di Israele comunque. Anzi, nelle sue tormentate 1.369 pagine del monumentale Il sionismo. Una storia politica e intellettuale. 1860-1940 (Einaudi, euro 130), riporta nel dettaglio i fatti, le parole, il vastissimo dibattito di allora, dando conto di ogni contraddizione attraversata nella lunga marcia verso Israele per fermarsi al 1940, quando le fondamenta dello Stato, come dimostra, sono di fatto posate.
Che la nostalgia e l´insediamento ebraico in Terra Santa sia stata una costante nei secoli, a Bensoussan non interessa più di tanto, perché spiega solo il pur fondamentale legame, profondo, «fisico» dice il professore, con quella terra, quella e nessun altra, tanto che la nota proposta britannica di creare un focolare in Uganda (1903), nel giro di due anni, finì nel nulla. Il punto di partenza del sionismo per lo storico francese risiede invece nell´Haskalà, il movimento illuminista del mondo ebraico nato a Berlino alla fine del `700 e ben rappresentato da Moses Mendelssohn, l´intellettuale che nel tradurre la Bibbia in tedesco tenta di coniugare la ragione dei Lumi con l´ebraismo, un modo per aprirsi, senza scomparire, al mondo circostante attraverso una forte volontà di riforma.
Da un lato i maskilim (sostenitori dell´Haskalà, «coloro che conoscono»), spingono verso l´assimilazione concependo ancora la propria identità di gruppo come russi, tedeschi, rumeni..., mentre dall´altro spianano di fatto la strada all´idea nazionale ebraica attraverso il risveglio letterario della lingua sacra, l´evocazione romantica del passato biblico, e soprattutto modernizzando la vita economica della diaspora. Le strade scelte per ora divergono, si incrociano, si ignorano: per i tedeschi spesso la germanità viene prima dell´ebraicità, che diventa mera religione e studio; per le grande comunità russe e polacche il ritorno all´ebraico, usato ora anche a scopi profani (il primo periodico in ebraico però, HaMeassef - il raccoglitore - nasce nel 1783 a Königsberg, la città di Kant), sottolinea subito una volontà di risorgimento nazionale.
Bensoussan entra nelle stanze private e pubbliche dell´ebraismo che rinasce dai ghetti - per lasciarli - e si intreccia al corposo protosionismo che cresce ben prima del I Congresso del 1897 e di Theodor Herzl, e ben prima anche dei terribili pogrom che funestano la Russia dall´81 (dopo l´assassinio dello zar Alessandro II) all´84: quel che vuol dire è che il sionismo è un frutto diretto, naturale, necessario e dirompente, della Modernità.
Non è un mondo univoco, come abbiamo detto: Yehuda Leib Pinsker, animatore della società fondata a San Pietroburgo nel 1863 per espandere la lingua russa in un mondo che parla quasi esclusivamente yiddish, incoraggia anche la pubblicazione di libri scientifici in ebraico, così come i giornali HaZefirà (L´aurora) e HaMelitz (L´interprete). Anche Peretz Smolenskin fonda un foglio, HaShachar (L´alba); il suo l´obiettivo è già ricomporre l´identità ebraica sotto il segno di un sentimento nazionale, della lingua, della cultura, e non più sotto quello della fede che vacilla, lo vede, ogni giorno di più: la Redenzione attraverso l´insediamento in Eretz Israel, dice, è l´idea che riunirà tutti gli ebrei. I rabbini gli sono contro (non tutti però): né la Torah, né la terra di Israele sono concepibili fuori dal sacro.
Ma la Storia marcia in un´altra direzione. Anche perché, sull´altro fronte, quello dell´assimilazione, le cose non vanno bene e tra il 1870 e l´80, la frangia emergente si vedrà sbarrare la strada dell´integrazione da un antisemitismo radicato e nuovo - quello che sfocerà poi nei pogrom e nei Protocolli - : malessere sociale e malessere identitario, non fanno che guadagnare candidati al prenazionalismo ebraico.
Non si possono raccontare i milioni di passioni, parole, scontri che Bensoussan tocca: alcuni sentono che il "ritorno a Sion" arginerà la minaccia rappresentata dalla modernità che fa scricchiolare il mondo tradizionale senza offrire nuove sponde reali; altri, come Moshe Leib Lilienblum vuole riformare la Legge per "salvare la Legge"; Achad Ha´am batte sul risveglio culturale come base per lo scatto nazionale; Berl Katznelson coltiva la Torà quanto i Lumi; Aharon Lieberman vorrebbe coniugare nazionalismo ebraico e socialismo (e avrà molti compagni di strada); il rabbino Zvi Hirsch Kalischer, dalla Posnania, propone fin dal ‘36 al barone Rothschild e poi a sir Moses Montefiore di acquistare terre a Sion e spinge l´Alliance israélite universelle a fondare una scuola di agricoltura...
Il fatto è che Eretz Israel è già percepito come un rifugio per gli ebrei, prima dei pogrom del 1881. E quando arrivano i tre anni di razzie e morte sugli ebrei russi, il dado è tratto: da un lato prende avvio la grande emigrazione verso gli Stati Uniti, dall´altro la visione nazionalista taglia i ponti con l´ottimismo dei Lumi e inizia a sbarcare, lentissimamente, in Israele: Eliezer Ben Yehuda, lituano, fa la sua alyah (la salita in Israele) nell´81, sarà lui a modernizzare definitivamente la lingua; e sempre degli stessi mesi è la creazione dei primi gruppi degli Amanti di Sion (Chibbat Zion), vero antecedente dei sionisti, e subito dopo del gruppo pioniere Bilu: è l´inizio della Prima Alyah che vedrà 25.000 arrivi entro il 1900; nel 1882 Leo Pinsker scrive Autoemancipazione. Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli, che contiene a chiare lettere la proposta di una soluzione nazionale territoriale precorrendo in molte cose Lo Stato ebraico di Theodor Herzl.
Dopo... dopo la storia è più nota, passa attraverso l´Europa occidentale, l´affaire Dreyfus, Herzl «acclamato come un re» e la sua concezione pubblica, diplomatica, finalmente politica della creazione di Israele e la sua coraggiosa realizzazione pratica. Varrebbe la pena leggere tutto di quel che racconta Bensoussan: degli ostacoli quanto dell´ardore incontrati dagli ebrei che volevano prendere in mano in proprio destino: al I Congresso sionista del 1897, ad esempio, si parlò quasi esclusivamente tedesco (e non yiddish, russi e polacchi ne erano scandalizzati); dieci anni dopo il congresso adotta l´ebraico come lingua ufficiale: non è il compiersi di una rivoluzione, di un miracolo?
Varrebbe la pena prender nota delle enormi difficoltà incontrate in quella che il Mandato Britannico chiamerà Palestina. Fatica, miseria, malaria, morti. Molti torneranno indietro, molti altri andranno. Nella Seconda alyah, dal 1904 al 1914, gli olim (coloro che fanno l´alyah) saranno 40.000. Il processo comunque è inarrestabile: alle spalle non c´è che buio, ce lo dicono le memorie raccolte anche in questi volumi che testimoniano la paura che avvolgeva gli ebrei, soprattutto in Russia, ma non solo, costretti a passare intere giornate nascosti in botole, nascondigli, se non a veder uccidere i propri cari, stuprare le proprie donne, distruggere e saccheggiare le case. E il peggio in Europa doveva arrivare.
Fin da subito in terra d´Israele si affaccia il problema degli arabi: non è vero, dice Bensoussan, che, come ebbe a scrivere Hannah Arendt nel 1945, i sionisti sono stati ciechi di fronte alla presenza araba in Palestina. Se Herzl l´affrontò solo nel suo Diario, Ben Yehuda ne scrive con sconforto già nel 1881 ("Percepii che si sentivano cittadini in quello stesso paese"); Achad Ha´am ne ragiona su HaMelitz fin dal suo primo viaggio del 1891 tormentandosi all´idea di poter commettere un´ingiustizia. Anche la seconda alyah ripete la stessa esperienza: Ben Gurion sbarcato nel 1906 a Giaffa si sente "più esule a Giaffa che a Plonsk" da dove proviene. I piccoli scontri si moltiplicano. Il vero contenzioso diventa presto la decisione sionista di vivere solo di lavoro ebraico, e non di manodopera araba: il che in gran parte elimina l´accusa di colonialismo, ma dall´altra pone il problema dell´espulsione degli arabi un tempo fittavoli delle terre ora vendute da grandi proprietari di Damasco e Beirut. Moshé Smilanskij vede la rivolta araba inevitabile; i più speranzosi invece raccomandano di comprare solo terreni incolti, studiano come migliorare il livello di vita arabo (e sono i più), mentre però si affaccia pian piano anche la prospettiva di dividere i due popoli (per finire nel ‘42 in una proposta ufficiale di partizione), piuttosto che di trasferirne una parte. Molti si illudono che a un certo punto i vantaggi portati dalla nuova presenza (che in effetti attira una forte immigrazione dagli Stati vicini) convinceranno gli arabi ad accettare i sionisti che sperano soprattutto di diventare più numerosi, maggioritari; e comunque si dicono: "per noi esiste solo questa possibilità, il territorio arabo invece è sconfinato". Epstein, Buber e i "pacifisti", propongono di rinunciare al progetto nazionale: è la soluzione binazionale quella giusta, dicono. Altri preparano, e presto organizzano, l´autodifesa.
Il dibattito interno è acceso, febbrile, doloroso, comunque sempre più esplicito e stretto dall´immigrazione in coincidenza del nazismo: Bensoussan non si risparmia e con altrettanta generosità entra nel fronte decisivo del rifiuto arabo, fronte compatto e determinato a ributtare in mare gli ebrei, anche quando, dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, dopo le rivolte e gli eccidi del ‘29 e del ‘34-36, dopo il rapporto Peel del 1937, la situazione internazionale suggerirebbe più cautela e politica. Sembra di rileggere la storia degli anni più recenti.
Oltre a spiegarci il passaggio del sionismo al quasi Stato degli anni ‘30 e ‘40 (con i moshav, i kibbutz, le scuole, l´università, i teatri, l´orchestra, le banche, l´Haganà - la forza di difesa-, il potente sindacato) Bensoussan, come abbiamo detto, non tralascia gli argomenti più scomodi: tra i tanti prendiamo, per ultimo, l´accusa di colonialismo. Durante la gestazione di Israele, riporta lo studioso, non mancano i critici dell´alleanza dell´Yishuv, l´insediamento ebraico, con l´Impero Britannico: la Arendt, Martin Buber... Obiezioni a cui il pur perplesso Gershom Scholem risponde sottolineando come il sionismo non abbia avuto scelta, vista l´impossibilità di un negoziato con gli arabi e la persecuzione degli ebrei in Europa. Bensoussan ci ricorda le autoaccuse che gli stessi sionisti si rivolgevano, gli scontri, le argomentazioni di chi ricorda come la terra prescelta ("Israele e non la Palestina") fosse repulsiva, arida, come gli ebrei non avessero alle spalle alcuna potenza: non si erano impadroniti delle terre con gli eserciti, ma comprandole; e, a differenza di ogni potenza coloniale, il problema, a partire dalla seconda Alyah (1904), era stato non farci lavorare gli autoctoni, non di sfruttare la loro manodopera, ma basarsi invece sul lavoro collettivo ebraico.
La conclusione: il "cliché" sionista del "ritorno degli ebrei sulla loro terra", scrive Bensoussan, non è un cliché: «perché tutto dimostra il radicamento della nazione ebraica e il patriottismo di questo popolo, che non difende "una colonia dove fa comodo vivere", ma la sua identità profonda». «Né il sionismo né lo Stato di Israele sono il regalo dell´Occidente fatto agli ebrei... In essi si riflettono l´avventura di migliaia di vite oggi dimenticate che, dalla Russia, la Polonia, il Marocco, la Persia, - e dall´Italia, aggiungiamo noi - un giorno hanno fatto crollare i muri della tradizione, vincendo la paura, inventando un altro modo di essere, e di cambiare il mondo».

Susanna Nirenstein da La Repubblica del 10 aprile 2007