Intervista ad Alona Kimhi 03/04/2007
Autore: Giorgia Greco

Pubblichiamo un’intervista a Alona Kimhi a firma Paola Radaelli apparsa sabato 31 marzo sul settimanale Specchio de la Stampa.

 

Che fine hanno fatto le utopie dei primi coloni sionisti? Infrante. Cos’è diventato, oggi, lo Stato ebraico? Un luogo di incertezze e contraddizioni.

 

In occasione dell’uscita in Italia del suo romanzo “Lily la tigre”, scrittrice di Tel Aviv racconta il suo paese. Con amarezza. E appena un filo di speranza.

 

 

“Israele sta attraversando un periodo davvero difficile, il sentimento di delusione è profondo e diffuso. Personalmente non posso dire di essere delusa, per la semplice ragione che non mi sono mai fatta illusioni riguardo a questo Paese”. Alona Kimhi non smentisce la sua fama di israeliana-contro, si esprime senza remore con posizioni categoriche, controverse. Bionda, elegante, seducente, risponde alle domande con un fiume di parole. Quasi la stessa mancanza di inibizione che distingue la debordante protagonista del suo ultimo libro, Lily la tigre, appena uscito da Guanda. Lily è una donna obesa che si piace, famelica di cibo e di sesso, la cui animalità si sprigiona irrimediabilmente al dono di un cucciolo di tigre da parte di un ex-amante giapponese che ha scelto l’evirazione per motivi estetici. La mediterranea Tel Aviv, umida e caotica, funge appena da sfondo a una serie di personaggi che paiono ispirati al catalogo freakshow, le cui vicissitudini vengono raccontate con una lingua insieme ironica e poetica che per la scrittrice ha origini lontane.

 

Nata nel 1966 in Ucraina, Alona Kimhi emigra con la madre e il patrigno in Israele quando ha sei anni. Il rapporto con il Paese di adozione si rivela fecondo ma ambiguo, come ci racconta con parole che rivelano l’appartenenza alla generazione di scrittori “post-ideologica”, dissacrante e per nulla intimorita dall’ingombrante presenza di mostri sacri come Oz e Yehoshua. Scrittori – fra gli altri Etgar keret, Eshkol Nevo, Orly Castel-Bloom – che non si sentono più impegnati a dimostrare la loro appartenenza alla nazione o il loro pedigree sionista, che tendono a liberarsi dai temi ideologici per parlare piuttosto della vita, senza altra caratterizzazione.

 

 

Il suo ebraico, sostiene, è nutrito di lingua e cultura russe, eppure è giunta in Israele bambina. Da dove viene il nutrimento?

“Una volta immigrata sono vissuta dentro una specie di ghetto dove si parlava, leggeva e pensava in russo. Anche oggi i nuovi immigrati hanno una vita culturale nutrita da giornali, compagnie teatrali, orchestre rigorosamente russi, potrebbero vivere in Israele senza conoscere l’ebraico, un po’ come accade agli anglofobi. Io ho conosciuto il paese attraverso questa lente, questa cultura. Solo verso i vent’anni, quando mi sono iscritta a una scuola di arte drammatica, sono stata costretta a liberarmi dal pesante accento che storpiava il mio ebraico. Così sono passata all’estremo opposto, volevo diventare a ogni costo una israeliana perfetta, mi sforzavo di cancellare la mia identità di immigrante. E poi, come spesso avviene con l’età, ecco nuovamente salire in superficie le radici, oggi mi scopro via via più russa col passare del tempo. Il mio primo romanzo è ambientato nella comunità russa in Israele”.

 

Si definirebbe quindi una scrittrice israeliana o una scrittrice che vive in Israele?

 

“E’ una domanda cui è complicato rispondere. Sento un forte legame con Israele, non posso ignorarlo né negarlo, ma se osservo attentamente i miei libri non vi ritrovo prepotente la sua presenza. Mi chiedo a volte se questo sia dovuto all’abitare a Tel Aviv, i cui abitanti sono noti per sentirsi più telavivensi che israeliani. Ma in verità ho vissuto la maggior parte della mia vita fuori da Tel Aviv, in senso più psicologico che fisico – è un Paese talmente piccolo, non si è mai lontano da nulla. In tutta sincerità, non posso considerare Israele la mia patria nel senso più completo, non ci sono nata, per i russi sono russa. Quanto alla letteratura, i modelli di riferimento sono inevitabilmente occidentali o fanno parte della tradizione ebraica, anche se io non mi sono mai sognata di leggere autori come Aharon Appelfeld – chi ha voglia di leggere ancora di Olocausto, specie dopo Primo Levi? Siamo un Paese giovane, sessant’anni di storia non offrono radici salde a cui aggrapparsi, né vantiamo molte esperienze di cui essere orgogliosi. Eppure sì, alla fine proprio per tutte queste ragioni posso dire di sentirmi una scrittrice israeliana”.

 

Lei appartiene però a una generazione di giovani scrittori che sente la propria appartenenza in modo radicalmente differente rispetto alla precedente, “eroica” e ideologica.

“Forse dipende dal fatto che gli scrittori della mia età non hanno l’ambizione di scrivere il libro epocale su Israele, il ritratto perfetto. Negli anni ’70 Abraham B. Yehoshua fu il primo a introdurre personaggi arabi nei suoi racconti, allora fu una novità. Ciò non toglie che lui gli arabi li odia, non è certo sufficiente mettere un arabo sullo sfondo della trama per affermare di aver scritto un libro politico. Quanto ad Amos Oz, che è uno dei miei scrittori preferiti in assoluto, lui è stato per anni il volto bello e ideologico di Israele, ha rappresentato la parte migliore di noi, una sorta di coscienza collettiva che si permetteva persino di dare consigli ai politici israeliani, ricopriva un ruolo che trovo disdicevole. Non credo che uno scrittore sia più qualificato di altri a offrire una lettura del proprio paese, gli scrittori sono solo bravi a scrivere, non si dimostrano necessariamente più sensibili e attenti ai fenomeni sociali. Come si può descrivere Israele in modo adeguato se si vive come Oz, chiuso da trent’anni in un paesino del Negev?”

 

Mi sembra quasi di sentir affiorare quella misantropia che trasuda dal suo libro, dove i personaggi maschili sono spesso negativi o per lo meno deboli.

“Certo vi è una profonda differenza fra i sessi nel modo di affrontare lo stesso argomento. Tutti e tre gli scrittori della triade israeliana – Yehoshua, Oz e Grossman – sono autoreferenziali, compresi della loro importanza, del loro ruolo nella società, trascinati dall’ambizione di scrivere qualcosa di fondamentale. Senza dubbio è una forma di machismo sottolineare costantemente il legame con il territorio, rivendicare continuamente la presenza nella terra d’Israele da generazioni. Io non ho mai vissuto un simile ethos, ho cominciato a sentirmi israeliana solo verso i vent’anni. Ancora oggi fatico a riconoscere diritto e legittimità a questa nazione tanto da chiamarla mia. Perché dovrebbe essere degli israeliani? Abbiamo comprato sì e no il terreno su cui sorge Tel Aviv, il resto è stato sottratto agli arabi, buttandoli fuori con che diritto? Non ho mai pensato che Israele dovesse essere la patria degli ebrei, non ho mai avuto alcuna ossessione per lo Stato ebraico, non ho mai chiesto di viverci, non sono mai stata sionista, non potrebbe importarmene di meno”.

 

Gli intellettuali della sinistra sionista hanno però incarnato lo spirito di Israele forte e sicuro di sé, pronto a compromessi con gli arabi e percorso da una forte coscienza morale. Oggi quale spirito anima la società israeliana?

“Non c’è più sinistra in Israele, movimenti come Shalom Akshav, che si opposero con manifestazioni di centinaia di migliaia di persone alla guerra in Libano del 1982, non esistono più. Il Paese si è radicalmente spostato a destra. La sinistra si è imborghesita, pensa ad arricchirsi, è in piena decadenza. Un processo che forse è iniziato con l’assassinio di Yizhak Rabin nel 1995 ed è dilagato passo dopo passo. L’Israele di oggi è insicuro, ha paura e questo sentimento porta benzina al fuoco dell’estremismo di destra. I coloni nazionalisti e religiosi che abitano i territori palestinesi occupati sono gli unici che vivono una ideologia trascinante e in crescita, credono fermamente che la ragione sia dalla loro parte e per il momento sono i soli a esprimere uno spirito ottimista e vittorioso. Nessuno tuttavia, a destra o a sinistra, si sente orgoglioso in questo momento di essere israeliano, nessuno si identifica con l’idea di Stato, regna una totale delusione e disapprovazione per l’indirizzo che ha imboccato il Paese. La gente ha perso speranza ed entusiasmo, non ultimo nello stesso sionismo.

 

Sembra di riascoltare il disincanto delle generazioni dei primi immigrati dall’Europa, quando si resero infine conto che i loro ideali di uguaglianza e giustizia non si sarebbero realizzati in terra d’Israele. Ma quelle erano appunto aspettative altissime, sogni irrealizzabili. Oggi a essere delusi non sono un gruppo di intellettuali utopisti, ma la gente semplice senza grandi ideali, il ceto medio che vive di necessità quotidiane, una popolazione stanca di svegliarsi ogni mattina con l’impressione di precarietà e sbandamento. Siamo diventati una sorta di repubblica delle banane. Ma vi rendete conto degli scandali che sta vivendo il nostro Paese, dalle accuse di stupro per il presidente della repubblica, a quelle di corruzione per il capo di stato maggiore, al capo della polizia che copre un assassinio di mafia?”

 

L’esercito ha sempre rappresentato uno dei pilastri della nazione, i suoi soldati incarnavano il sentimento di redenzione e di rivincita del popolo ebraico. Ora, soprattutto dopo le due intifade e l’ultima guerra in Libano, mi sembra si stia di fronte a un mito infranto.

“ Un tempo la forza militare era la bandiera della sinistra sionista, si parlava di toran ha neshek, la purezza delle armi, allora tutti i figli del kibbutz facevano la fila per entrare nelle unità di élite dell’esercito. Ora non esiste più il kibbutz e quelle stesse unità sono piene di coloni religiosi con la kippà fatta all’uncinetto, i nuovi entusiasti. E’ successo invece quanto venti o trent’anni fa era impensabile, un gruppo di militari e riservisti, Shovrim Shtiqà – Rompere il silenzio – osa criticare apertamente l’esercito,mettere sotto accusa ufficiali e comandanti dando testimonianza dei tremendi abusi sui civili palestinesi avvenuti durante l’ultima intifada.

 

“La stessa ondata di critiche dalle file dei militari è stata espressa in occasione della guerra in Libano la scorsa estate. I soldati si sono sentiti abbandonati e mandati allo sbaraglio senza rifornimenti adeguati, senza un piano. L’esercito che è sempre stato il fiore all’occhiello della nazione israeliana, di cui tutti andavano fieri, si è dimostrato incompetente e impreparato. In questo momento non vige alcun senso morale, nessun ufficiale si vanta di appartenere all’esercito israeliano”.

 

Il ritratto che sta facendo di Israele è a tinte fosche, non vede proprio nessuna luce alla fine del tunnel che non sia quella dei fari del treno in arrivo? Proprio movimenti come Shovrim Shtiqà dovrebbero ridare slancio alla speranza.

“Per il momento il sentimento predominante è la paura, la delusione. E non solo sul fronte politico. Purtroppo le condizioni economiche si sono drammaticamente deteriorate negli ultimi anni, e quando si avverte la sensazione di vivere in povertà, subentrano la rabbia e la paura ed è estremamente difficile rilassarsi.Viviamo in un costante stato di paranoia, temiamo e odiamo gli arabi. Una realtà palpabile in particolare nella comunità degli immigrati russi, scarsamente educati alla convivenza e profondamente razzisti, che rappresentano il 20 per cento della popolazione. Voi italiani disprezzate la vostra classe politica, ma amate il Vostro Paese. Gli abitanti di Tel Aviv amano la propria città, ma non amano gli altri israeliani, si stanno sui nervi a vicenda.

 

“Si continua ad abitare in Israele perché la maggior parte non possiede sufficiente educazione e mezzi per trasferirsi altrove, e anche perché non è così facile venire accolti. Mi torna in mente il paradosso buddista dell’uomo che sa benissimo che dovrà morire ma vive ignorandolo, in una bolla. Oggi in Israele questa bolla di sicurezza si è consumata, ridotta al minimo.

 

“La differenza con gli anni successivi alla guerra del 1967 è che allora eravamo convinti di essere nel giusto, non c’è nulla come questo sentimento per dare la sicurezza che tutto è possibile, per illuderci che la nostra esistenza abbia un senso. Allora si aveva la sensazione di combattere per il futuro dei propri figli, per fare in modo che quanto era successo in Europa non si ripetesse. Ora per che cosa potremmo combattere? Una volta svanito il senso di giustizia e integrità, non abbiamo forza. Certo Israele è un Paese dove tutto cambia improvvisamente, basta una scintilla, ma per il momento non la vedo”.