Articolo del 31 marzo 2007 di Bernard Guetta 01/04/2007
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L’articolo del 31 marzo firmato da Bernard Guetta “Così Israele non crede più alla pace” offre una visione alterata della realtà israeliana e difetta di alcune importanti informazioni che avrebbero consentito un’analisi corretta.
Innanzitutto, da un lato abbiamo il “piano saudita” del 2002 di Beirut, a cui si è aggiunta mesi dopo l’imposizione della Lega Araba sul “diritto al ritorno” non solo dei profughi del 1948, ma anche della loro discendenza volutamente congelata dai regimi arabi. In nessun paese al mondo esistono “profughi politici” tanto meno “coltivati” per essere strumentalizzati. Altrettanto, è un nonsenso che dei profughi palestinesi debbano essere inseriti in Israele e non nello stato palestinese. A che pro allora creare uno stato palestinese?
 
Di fatto, Israele sta “valutando e riflettendo sul piano saudita” mentre ha decisamente rifiutato l’imposizione della Lega Araba comune a Hamas e Fatah. Non è affatto vero che Hamas sia favorevole al piano saudita, ma a quello della Lega Araba e ha dichiarato che “l’OLP non ha l’autorità di rappresentare il popolo palestinese”. Ne disconosce del tutto gli accordi passati con Israele. Accetta eventualmente tregue con Israele, ma non la fine delle ostilità e del terrorismo.
 
L’eventuale negoziato sui profughi palestinesi riguarderà solo i profughi del 1948, ma nella negoziazione influiranno i 900 mila profughi ebrei arabi (tra cui molti furono uccisi), cacciati e spodestati dei loro beni dai paesi arabi.
 
Il piano saudita contempla nuovamente sia la risoluzione 242 e 338 rifiutate per ben 37 anni, sia la trattativa di Camp David dell’agosto 2000, rifiutata dagli stessi sauditi nella telefonata del re d’Arabia Saudita a Arafat. Ecco un motivo di diffidenza. Se poi tale motivo lo inseriamo nella veloce analisi sulla situazione regionale ed internazionale esposta da Bernard Guetta, aggiungendo le informazioni da lui taciute ed evidenziando che il giornalista non ha intervistato politici di diversi schieramenti, le diffidenze aumentano anziché scemare. Di fatto, l’Arabia Saudita teme la rivoluzione sciita che l’Iran sembra voglia scatenare. La provincia araba orientale, la più ricca in giacimenti petroliferi, è abitata da una maggioranza sciita. Il Bahrein da cui è divisa ora solo da un ponte, all’80% è sciita. E via dicendo. Inoltre, intende togliere il sunnita Hamas dall’influenza e sostegno finanziario iraniani. Il “piano di pace” è stato inviato a Thomas Friedman del New York Times. Il messaggio era il mezzo: per la prima volta un piano di pace non segue l’iter ufficiale. Curioso, no? Nulla impedisce di ritenere che fosse rivolto esclusivamente alla pubblica opinione americana per migliorare l’immagine saudita del dopo11 settembre, quando gli americani appresero sconvolti che 15 dei 19 terroristi degli attacchi a New York e Washington erano cittadini sauditi. Malgrado questo, contatti israelo-sauditi e di Israele con Abu Mazen continuano. Vero: pesano le diffidenze sul futuro dei regimi arabi. Si sa che se  i Fratelli Musulmani vincessero in Egitto, il loro primo atto consisterebbe nel rompere il trattato di pace con Israele. Questo timore, unitamente al fatto che l’Egitto è il paese più armato dell’area, è stato espresso in un’intervista al Jerusalem Post del 6 febbraio scorso, da Andrew M. Rosemarine, avvocato dei Diritti Umani. Il titolo dell’articolo di Bernard Guetta avrebbe dovuto essere “Vogliono realmente la pace gli arabi?” Grazie per l’attenzione.
Danielle Sussmann