Yoel Hoffmann Il libro di Joseph 23/03/2007
Autore: Giorgia Greco

Il libro di Joseph                Yoel Hoffmann

Traduzione di Dalia Padoa

Cargo                                               Euro 14,00

 

Innanzitutto, i lupi sono esenti dalle regole della kasherut. Così spiega Joseph il sarto al piccolo Yingele, mentre getta, da un treno in corsa, una salsiccia verso la foresta. Il tedesco di buoni sentimenti che gliel’ha regalata non si è chiesto se potessero mangiarla ed è per questo che il bambino si preoccupa delle bestie nel bosco. Non dovranno anche loro osservare le leggi alimentari che il buon Dio ha dato agli ebrei?

 

Il mondo dello scrittore israeliano Yoel Hoffmann è popolato da animali dai tratti umani e da uomini che vestono, di volta in volta, maschere di sciacalli, piume di uccelli rapaci o sembianze di gatto. Nemmeno il paesaggio rimane mansueto al proprio posto: il mare fa l’amore col cielo e le strade si sbriciolano come cristalli.

 

Sebbene sia stato scritto in ebraico, Il libro di Joseph ansima e sogna in tedesco, vero “pastiche” linguistico sul crinale tra due culture.

 

Hoffmann è maestro di uno humor nero ancora tutto novecentesco ed è uno degli autori più inguaribilmente europei del panorama letterario israeliano contemporaneo. Sa abbozzare scene crudeli con tratti lievi, tanto che il lettore quasi non si accorge che, tra nonsense, fatalismi e battute di spirito, ad andare in frantumi è l’ebraismo ashkenazita, assieme alle ambizioni del vecchio continente.

 

Il romanzo racconta due storie parallele, una ambientata nella Germania degli anni Trenta e l’altra nella Palestina del secondo dopoguerra. Le parole passano attraverso le anime di due bambini, Yingele,nato in una famiglia dell’Europa orientale emigrata poi a Berlino, e Katschen, cresciuto in Terra d’Israele. “Gli esseri umani camminano ciascuno secondo i battiti del proprio cuore”, scrive Hoffmann e, in effetti, il ritmo della vicenda berlinese è quello sincopato di cuori in fuga, prima dai pogrom russi e ora dal crescendo della violenza nazista.

 

Nella capitale tedesca si svolge un macabro minuetto. Joseph e suo figlio Yingele sono spinti inesorabilmente ai margini  della società, eppure gli “altri”, i tedeschi, continuano a comportarsi tra loro secondo un impeccabile galateo. “Quando verrà il messia la sua prima tappa sarà Berlino”, pensa un amico di Yingele, ma naturalmente Herr Messias non arriva e l’esistenza degli ebrei si tinge sempre più d’affanno. La tragedia si consuma infine in una straniata Alexanderplatz.

 

Per Katschen la vita in Terra d’Israele pulsa invece più lenta, dominata dalla nostalgia. La Vienna in cui il nonno era stato soldato di Francesco Giuseppe e la zia cantante all’Opera è per il bambino paese fiabesco, di amori perduti e sentimenti estremi. Katschen sa intuitivamente di non appartenere al mondo ottimista dei pionieri sionisti esprime la propria estraneità con infantili paradossi verbali. Non sono le persone, per esempio, a infilare le scarpe ma viceversa: “Ogni scarpa infila dentro di sé il piede e la persona che sta in cima al piede, e poi esce per strada”.

 

E’ questa la parte più riuscita del romanzo, in cui ogni incontro apre uno scorcio su di un Israele surrealista, dove ci si perde volentieri. Qualche passaggio è forse un po’ didascalico. Così, il terzo occhio con cui Katschen osserva la realtà ricorda troppo da vicino le filosofie orientali di cui Hoffmann è docente all’Università di Haifa. Ma sono peccati veniali, e d’altronde il gusto della citazione ben si addice a questo “ready made” di assurdità quotidiane.

 

 

Giulio Busi

 

Il Sole 24 Ore