I nuovi scrittori israeliani 19/03/2007
Autore: Giorgia Greco

I nuovi scrittori israeliani

 

 

Ironici e disincantati. Privati dell’utopia collettiva di Yehoshua e Oz vivono e scrivono piccole storie contemporanee. Sono i nuovi, controversi scrittori israeliani.

 

 

A Tel Aviv sta per scoppiare una bomba. Una bomba che fa saltare in aria tutte le regole di un gioco universale che mitizza un corpo femminile magro, liscio, senza imperfezioni. Lily, una Bridget Jones di centodieci chili, igienista dentale lasciata dal fidanzato all’altare, si masturba immersa nella schiuma della vasca da bagno, si prepara come una sirena incantatrice, cerca l’amore negli angoli bui della città.

 

In Lily la tigre (appena uscito da Guanda) di Alona Kimhi, vanno in scena a Tel Aviv la nuova prostituzione che arriva dall’est, i rapporti violenti tra maschi e femmine, ma anche metamorfosi liberatorie per non soccombere, come la trasformazione di un’irresistibile donna cannone nel corpo di una tigre.

 

Anche Ella Miller, archeologa di Gerusalemme, non sta più nella sua pelle, nel suo Io. Il suo narcisismo dirompente straripa sin dall’inizio del nuovo libro di Zeruya Shalev “Dopo l’abbandono” (uscirà a maggio da Frassinelli), terzo capitolo di un percorso di autocoscienza iniziato scrivendo il racconto erotico “Una relazione intima” e proseguito con “Una storia coniugale”. Ella coltiva il sogno di una libertà incondizionata, e per cambiare il suo destino abbandona il marito e ogni sicurezza borghese, lottando e contando solo su sé stessa.

 

“La mia  utopia è quella di persone capaci di cambiare vita e anche di cambiare pelle”, dice Kimhi, punta di diamante di una nuova generazione di scrittori israeliani che vuole staccare con il passato e ha come modelli autori americani come John Irving, Don De Lillo, Bret Easton Ellis. “Voglio trovare nuove maniere di parlare della Shoah come del femminismo”, continua. “Prima di essere ebrea sono una donna, cosciente di vivere in un paese molto maschilista”.

 

Kimhi non è stata la prima ad avvertire questa necessità. Il ghiaccio era già stato rotto da Shifra Horn, la Isabel Allende di Tel Aviv, da Orly Castel-Bloom, pubblicata in Italia da e/o, o Dorit Rabinyan, trentacinquenne di origine iraniana ma residente a Tel Aviv che nel suo “Spese persiane” (pubblicato in Italia da Neri Pozza) aveva svelato la tragedia di mogli bambine, donne sedotte e abbandonate, madri violentate dagli stessi mariti per non aver dato loro un figlio maschio, fratelli pronti a sfilare la frusta. Scenari quotidiani di cruda realtà, senza una speranza e un orizzonte possibile.

 

“La missione dello scrittore ebreo è cambiata. Oggi bisogna far prendere coscienza al proprio pubblico della complessità delle cose, più che prendere posizione”, dichiara l’eclettico Etgar Keret, nato nel 1967 da genitori sopravvissuti allo sterminio nazista, che dalla metà degli anni Novanta scrive e lavora per il cinema e la televisione.

 

Eccoli, gli scrittori israeliani del terzo millennio: inventano soggetti femminili inauditi, sono disincantati, ironici, rielaborano in chiave satirica tragedie come il conflitto arabo-israeliano o le stragi suicide dei kamikaze (vedi romanzi come Pizzeria Kamikaze di Keret, uscito qualche anno fa in Italia da e/o). Nati in Israele a partire dagli anni ’60, cresciuti in mezzo a guerre, conflitti, odi senza mai intravedere una pace, non cercano e non osano proporre vie d’uscita.

 

Per questo la chiamano generazione dei disillusi, dei disimpegnati, degli sfiniti. “Cambiare la realtà? Oggi non ci crediamo più”, continua Keret. “Gli intellettuali che vogliono dirci quel che è bene e quel che è male sono solo ingenui.

 

Come gli antibiotici, più passa il tempo e più sono inefficaci. Semplicemente non crediamo più alle soluzioni pronte. E le nostre storie non hanno bisogno di corrispondere al programma di un partito”.

 

Privati di un sogno collettivo vivono per raccontare di urgenze individuali, non spendibili in un impegno pubblico. “Il loro impegno è quello di evitare che l’ideologia si imponga sulla creatività”, spiega Giuseppe Strazzeri, direttore editoriale della narrativa straniera Mondatori. “Il progetto culturale e letterario degli autori nati fino agli anni ’50, illustrato nel famoso saggio di Yehoshua “Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare”, non è più così stringente per la nuova generazione. Se prima l’identità, il sentirsi ebrei israeliani che avevano vissuto la Shoah, era il carburante della scrittura, oggi la forza della narrazione si misura altrove”.

 

L’indietreggiare dei temi forti di una cultura prevalentemente maschile ha anche favorito un “pensiero debole”, femminile che viene da lontano. Il rischio? Che anche la letteratura israeliana contemporanea diventi “globalizzata”. Non è un caso che le single dei romanzi di autrici come Alona Kimhi, quarantenne di origine ucraina, ex attrice, assomigliano a quelle narrate da colleghe straniere coetanee inglesi o americane. Stesso mal d’amore con contorno di lacrime, depressione, medesima brillante ironia e capacità di analizzare se stesse e gli altri (vedi la protagonista di “Susanna in un mare di lacrime” della Kimhi).

 

Ma è davvero possibile rimuovere dal Dna della letteratura israeliana temi come l’esperienza dell’Olocausto, la ricerca delle radici, la rielaborazione del passato e la conquista di una identità nazionale? I temi dei romanzi di scrittori come Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman? Basta davvero la descrizione della società, forse più realistica ma anche meno caratterizzata,  a dare spessore e respiro a vicende ambientate in luoghi così carichi del peso della storia?

 

Spiega Luigi Brioschi, direttore editoriale di Longanesi e di Guanda: “Il rapporto con la Storia è diverso. I giovani scrittori non sentono come propria la tematica del sionismo. Anzi, non è raro che si trovino dalla parte dei palestinesi”. Esempi? Se per Abraham Yehoshua la lezione della Storia era imprescindibile, perché quello che accade oggi è una semplice continuazione di ciò che è stato. Le cose si ripetono, e per evitare gli stessi errori bisogna conoscere il passato”, per il giovane Keret è importante solo “leggere e scrivere di ciò che succede nelle nostre vite, qui e ora”.

 

Così, se in romanzi come L’amante Yehoshua aveva messo al centro i problemi di identità e di affermazione della cultura sabra, degli ebrei nati nel kibbutz, benestanti ashkenaziti dai quali si è sviluppata la frangia più nazionalista delle correnti politiche ebraiche israeliane, spesso trincerati dietro l’idea di essere figli di un dio maggiore, Keret scrive Gaza Blues a quattro mani con l’arabo Samir El-Youssef sul conflitto israelo-palestinese, e l’emergente Dudu Busi, in Nobile Selvaggio, romanzo non ancora tradotto in Italia, racconta di giovani e poveri adolescenti cresciuti nei sobborghi di Tel Aviv, di cultura ebraica yemenita.

 

“Per capire bene a che punto siamo arrivati bisogna partire proprio dalla generazione di romanzieri in cui c’era uno slancio positivo, la considerazione delle forze che stavano fondando lo Stato: una speranza che ha cominciato ad affievolirsi con la generazione di mezzo, Amos Oz, Abraham Yehoshua, fino allo Yacob Shabtai di Inventario”, dice Alberto Rollo, editor della Feltrinelli ed esperto di letteratura ebraica.

 

“Tutti scrittori che hanno vissuto una prima profonda delusione, che hanno contemplato un tramonto, ma pur sempre con il senso di aver costruito qualche cosa di importante. Nessuno dei narratori più giovani ha avuto a che fare coi padri fondatori dello Stato di Israele ed è per questo che la Shoah, l’identità ebraica sono diventate marginali: solo alcuni dei tanti temi su cui confrontarsi”.Che senso può avere allora, per giovani scrittori che non hanno nemmeno intravisto il bagliore di un tramonto, entrati direttamente nel buio della notte, ricostruire un passato, fare luce su un’identità personale e collettiva come accadeva in romanzi di Yehoshua come Il signor Mani, Le cinque stagioni, Viaggio alla fine del millennio (usciti da Einaudi)?

 

Paradossalmente il rafforzarsi della società, il fatto che per scrittori nati dopo gli anni ’60 essere israeliani sia un fatto acquisito, è come se avesse reso inutile la questione delle origini, dando forma a una letteratura senza fardelli-rovelli nazionalisti o ideologici.

 

Risultato: la nascita di un nuovo racconto umano, un cammino ancora tutto da percorrere, all’opposto della ricerca delle radici di Amos Oz (oggi in libreria con Non dire notte, Feltrinelli) che nel suo Storia di amore e di tenebra faceva un bilancio di sessant’anni di Israele seguendo il filo rosso del suicidio della madre nel 1952.

 

E raccontava l’illusione ottimistica di quegli ebrei che pensavano di poter costruire la loro casa in armonia con la parte araba della popolazione, edificando una piccola Europa nel cuore del medio oriente per andare “oltre i monti di tenebra”, pensando che laggiù, tra i kibbutz,”si stava costruendo un Paese e riformando il mondo”, “laggiù stava fiorendo una società nuova”. Il sogno di poter trasformare la realtà in “un canto nuovo, una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa”, che è la stessa illusione di riconciliazione di David Grossman, nato a Gerusalemme nel 1954 e da sempre schierato sul fronte del dialogo e della pace, che in Qualcuno con cui correre raccontava la storia di due ragazzi che non si arrendono e cercano con tutte le loro forze di far vincere i sentimenti contro l’odio e la violenza.

 

O, in Vedi alla voce amore, si volgeva verso le generazioni degli esuli descrivendo i campi di sterminio nazisti e ritornava con l’immaginazione là dov’erano stati i genitori o i suoi nonni: un “nuovo ebreo” forgiato in Israele che però aveva bisogno di guardare verso gli ebrei perseguitati e massacrati. Non per giustificare la nascita di un nuovo Stato  nazionale, ma per dare voce a personaggi che, concretamente, forse, non ce l’avrebbero mai fatta a ricordare e a raccontare.

 

Un abisso rispetto ai narratori post-moderni, sintetici, rapidi, che scrivono racconti brevi risolvendo questioni cruciali con sarcasmo e un apparente distacco: “Il problema dei nostri rapporti con gli arabi?”, si chiede la protagonista di un romanzo di Orly Castel-Bloom. “Con  gli arabi ci si fa all’amore”.

 

“Non rinnego la grandezza di romanzi come Storia di amore e di tenebra di Oz, Only Yesterday di Shmuel Yosef Agnon, sui primi pionieri immigranti sionisti e Vedi alla voce amore di Grossman”, spiega Alon Hilu, classe ’72.

 

“Ma la mia formazione è occidentale e per scrivere mi sono ispirato di più ai film dei fratelli Cohen”. Vincitore dell’Israeli Presidential Prize for Literature, Hilu è autore di Death of a Monk, pubblicato in Inghilterra da Harvill Press, una storia di omosessualità ambientata a Damasco nel 1840.

 

Provocazione? Snobismo? Voglia di differenziarsi a tutti i costi da mostri sacri ancora lettissimi? “Attenzione, si tratta di un distacco non completo con una generazione di classici ancora vivente”, sostiene Elena Loewenthal scrittrice e traduttrice dei più importanti autori israeliani. “Il confronto non è con un padre che non c’è più, ma con un padre che pubblica e produce cose nuove”. Altro punto ineludibile per la Loewenthal, che svela ancora una volta l’impossibilità di affrancarsi completamente, è la questione della lingua: “L’ebraico moderno, nato cent’anni fa, è sempre lo stesso della Bibbia”, dice. “E traducendo si colgono tantissimi riferimenti al testo sacro anche negli scrittori avanguardisti”. Autori con una lingua classica e però zeppa di inglesismi e arabismi, che riflettono il  linguaggio parlato, e suggeriscono l’integrazione e la deflagrazione nella scrittura di mondi diversi.

 

Altra chiave di fondamentale importanza per capire la letteratura israeliana, il confronto tra Oriente e Occidente: l’incontro tra cultura europea d’origine e una cultura araba di arrivo.

 

Un oriente Altro da sé in romanzi come L’amante di Yehoshua. E che invece nei giovani autori porta all’empatia, all’immedesimazione nel vissuto degli arabi, per cercare di vedere con i loro occhi la società israeliana.

 

Così Keret ha scritto Gaza Blues (e/o) con un palestinese, c’è anche chi mescola, nella realtà come nella finzione, la propria con l’identità dei vicini. Parliamo di Sayed Kashua, arabo di origine ma secondo la Loewenthal “per come scrive, il più ebreo degli scrittori israeliani”. Nato nel ’75, figlio e nipote di quei palestinesi che nel 1948 scelsero di rimanere in terra di Israele e di diventarne cittadini, Kashua ha preso se stesso come simbolo di una nuova identità liquida, ambigua. Nel libro autobiografico Arabi danzanti (Guanda), relativizzava le pretese di superiorità di ognuno dei due mondi utilizzandoli registro dell’ironia.

 

Con questa doppia identità arabo-ebrea nel libro si vestiva, parlava, si tagliava i capelli come un israeliano, si innamorava di una ebrea di Tel Aviv, dove viveva e faceva il giornalista, nonostante venisse rigettato da quel mondo. Mentre nel secondo capitolo della storia E fu mattina (sempre Guanda) tornava da Tel Aviv nel villaggio natio trovandosi, come arabo,altrettanto spaesato per la separatezza tra uomini e donne, gli imbrogli, la povertà, l’illegalità.

 

Descrizioni iperreali, giornalistiche di una terra di nessuno con traffico disordinato, cortei con inni al martirio e ai kamikaze, dove arrivava anche l’attacco degli israeliani.

 

Scenari completamente diversi dagli sfondi fantastici di Inventario di Shabtai, con le stanze fitte di oggetti, le città che invadono le distese di sabbia, i campi incolti e gli agrumeti, sfondi di esistenze sì deprimenti e insensate ma piene di un fascino. Con personaggi che come Cesar correvano dietro alle donne mentendo o come Goldman che provava una paradossale allegria davanti alla morte e non sopportava “l’esistenza dell’esistente”.

 

Una rovina e un caos presagio di una catastrofe storica e politica ma con la visione – per quanto cupa – di un futuro: prospettiva che nelle opere dei giovani narratori oggi è implosa.

 

“Ormai anche quando si toccano i temi più scottanti dell’attualità, l’interesse è per gli scambi relazionali, intimi, più che per quelli politico-sociali”, fa notare ancora Giuseppe Strazzeri. Come accade nel romanzo del trentaseienne Eshkol Nevo, nato a Gerusalemme ma che ha trascorso l’infanzia tra Israele e Stati Uniti, contemplando poi gli studi a Tel Aviv.Nostalgia (appena pubblicato in Italia da Mondatori) è la storia di Noa, che studia fotografia a Gerusalemme, e di Amir, studente di psicologia a Tel Aviv, che decidono di incontrarsi a metà strada e di andare a vivere insieme sulla collina di Castel, la comunità araba divenuta teatro delle battaglie del 1948 per l’accesso a Gerusalemme. Qui il tema dell’identità israeliana è ancora onnipresente: c’è l’esilio volontario, la lontananza, la guerra infinita che accompagna la nostalgia per la propria patria perduta oppure mai neppure conquistata. Il trauma vissuto da Israele dopo l’assassinio del premier Rabin, nel 1995, è l’ultima ferita mortale non ricucibile, ancora sanguinante, lo spartiacque decisivo che attraversa tutto il romanzo. Che non offre speranze di soluzioni al conflitto. Nuove ideologie per cercare di ricomporre il proprio sogno interrotto non ce ne sono. E il segreto, alla fine, semplicemente di dare valore a ogni singolo fatto, ogni piccolo piacere della vita.

 

“Voglio farmi emozionare dalle piccole cose”, scrive Nevo. “Camminare scalzo sulla spiaggia.Mangiare il cono del gelato. Voglio amore. Andare di più in bicicletta. Voglio guardare di più negli occhi. Dire la verità, di più. E, inoltre, voglio tornare a casa”.

 

 

 

Antonella Fiori

 

Donna di Repubblica