Fiamma Nirenstein Israele siamo noi 15/03/2007
Autore: Giorgia Greco

Fiamma Nirenstein
 Israele siamo noi
 Rizzoli, 259 pagine, e 17,50

Un compito arduo quello di Fiamma Nirenstein. Molto arduo. L'editorialista de Il Giornale, da anni di casa a Gerusalemme, con il suo ultimo saggio, Israele siamo noi (Rizzoli, 259 pagine, e 17,50), si pone l'obiettivo — dichiarato sin dalle prime righe — di ribaltare pregiudizi e luoghi comuni stratificati negli ultimi quarant'anni nel comune sentire occidentale (non soltanto per simpatia verso la causa arabo-palestinese). E cioè che Israele è uno «Stato colonialista», «aggressore», «razzista», causa prima (se non unica) dell'accerchiamento in cui si è venuto a trovare. Israele siamo noi è l'ultimo tassello di una quadrilogia dedicata al rapporto problematico, burrascoso e ancora non risolto nell'ormai bimillenaria storia degli ebrei in Occidente, rinnovato nella sua drammaticità prima dall'Olocausto e poi — paradossalmente — dalla ritrovata sovranità del popolo di Abramo in Medio Oriente. Dopo Il razzista democratico (analisi dell'antisemitismo «inconscio»), L'abbandono. Come l'Occidente ha tradito gli ebrei (viaggio nel rifiuto partorito dall'Intifada), Gli antisemiti progressisti. La forma nuova di un odio antico
(genesi dell'ostilità anti-ebraica di sinistra), ecco dunque il tema più spinoso, la tesi più sfrontata: Israele siamo noi. Siamo noi perché Israele «è un modello positivo e un caso di studio per chiunque si trovi a vivere in una società democratica che debba eventualmente affrontare una guerra di difesa».
Due tabù in uno, dunque: lo Stato ebraico come paragone virtuoso e la guerra vista come la giusta risposta a un'aggressione. «Israele siamo noi, lo siamo già oggi e lo saremo di più domani, e ancor di più quando l'Iran avrà costruito l'arma nucleare». Fiamma Nirenstein difende la vita di Israele con una passione e un afflato, lei europea, tipicamente mediorientali. Ma non lesina dati, cifre, sondaggi. E critiche aperte. Come quando accusa l'esercito per gli «stati di esasperazione e anche di perversione» che hanno portato al «grilletto facile». Tuttavia non perde di vista il filo conduttore del libro: correggere l'immagine distorta dallo specchio europeo di quanto avviene in quell'angolo così turbolento di Mediterraneo, il Mare Nostrum. Dunque i cittadini- soldati di Tsahal sono «guerrieri morali», da cui l'Occidente dovrebbe trarre ispirazione e non criticarli come «criminali di guerra» perché in battaglia (per esempio l'anno scorso in Libano) hanno provocato vittime tra i civili: «Certo, Israele ha colpito edifici e veicoli (camion che secondo l'esercito erano carichi di armi provenienti dalla Siria), ha causato la morte e la fuga di molti civili dai loro villaggi: ma è strano che i giornalisti e i politici, mentre la gente normale invece lo capisce, non comprendano che nessuna democrazia potrebbe mai accettare che le sue città vengano bombardate da missili senza prendere tutte le misure ragionevoli per evitarlo».
Israele insomma combatte per la sua esistenza. Si scusa quando sbaglia. E, diversamente da quanto suggerisce la volontà di appeasement dell'Europa, affronta con coraggio la tragedia della guerra, la sofferenza imposta da uomini (i nemici senza se e senza ma) che scelgono freddamente il conflitto armato come «alternativa alla politica». In Medio Oriente la Storia è fatta ancora di sangue, di scontro fisico, di contrapposizione di civiltà: che lo si accetti o meno. Scrive Fiamma Nirenstein: non serve mettere Israele (sempre) sul banco degli imputati, trasformarlo in un «paria» mondiale per cambiare una realtà che è quella che è. Non è un caso che la minaccia di un nuovo Olocausto sia venuta da un Paese islamico, l'Iran, per bocca del suo presidente Mahmoud Ahmadinejad. Ma Israele, guidato dal «sionismo, una meraviglia della storia», non ha nessuna intenzione di cedere, di sparire per quanto duro sia il ruolo di «fronte avanzato» nel conflitto che l'islamismo radicale ha dichiarato all'Occidente tutto.
Lo Stato degli ebrei è una democrazia che funziona. E combatte solo quando necessario (altro che Paese «colonialista sadicamente aggressivo verso gli arabi, cieco persecutore di bambini, pazzo costruttore di muri di apartheid»). In attesa che la sinistra, soprattutto in Italia, si accorga, conclude la Nirenstein, che «essere vicini a Israele non ha (...) niente che possa essere chiamato "di destra"».
Paolo Salom

dal Corriere della Sera del 15 marzo 2007