Emanuele Ottolenghi AUTODAFE' gli Ebrei, l'Europa e l'Antisemitismo 06/03/2007
Autore: Giorgia Greco

Emanuele Ottolenghi
"AUTODAFE' gli Ebrei, l'Europa e l'Antisemitismo"
Prefazione
di

Magdi Allam
ED. LINDAU, 2007, Euro 24,00 - pp. 382

LIBMAGAZINE (Giuseppe Nitto): Professor Ottolenghi, come nasce il libro Autodafè?
EMANUELE OTTOLENGHI: Autodafé nasce da due tipi d'esperienza. Il primo, accademico, si situa nei dibattiti a cui ho spesso presenziato e partecipato, negli ultimi sette anni, su Israele, il conflitto mediorientale e la sua soluzione, all'interno degli ambienti accademici inglesi e internazionali. Il secondo, di tipo polemico e giornalistico, deriva da numerosi contributi sul tema dell'antisemitismo nel contesto del conflitto arabo-israeliano, che ho scritto nel corso degli ultimi anni. Come spiego nella premessa del libro, essi a loro volta sono in parte frutto di ricerca e riflessione, in parte il risultato di osservazioni e a volte esperienze dirette di dibattiti interni al mondo ebraico, dove intellettuali ebrei, prevalentemente di sinistra, si sono sentiti e continuano a sentirsi spesso in dovere di denunciare Israele in maniera definitiva e inappellabile.
Tutte queste esperienze, messe insieme, hanno non solo fornito stimolo e causato riflessione, ma mi hanno soprattutto fatto capire la necessità di scrivere in maniera sistematica su quest'aspetto dell'antisemitismo moderno sul quale si concentra il mio libro.

LM: qual'è la tesi centrale del libro?
EO: La tesi centrale del libro è che in un mondo successivo all'Olocausto, l'antisemitismo è principalmente mascherato da antisionismo e che gli antisemiti, per poter esprimere apertamente il loro proprio pregiudizio, ricorrono a due tecniche discorsive: prima di tutto, essi delegittimano coloro che li criticano accusandoli di censura e facendosi scudo dell'idea che la loro partigianeria contro Israele avviene in nome di una battaglia per i diritti umani contro i nuovi 'Nazisti.' Nel processo di delegittimazione di chi difende Israele quale nuovo nazista, essi ricorrono, a dimostrazione delle loro tesi, a quegli ebrei che, per vari motivi, esprimono non soltanto un dissenso su questa o quella politica israeliana, ma piuttosto una condanna assoluta di Israele come progetto politico, auspicandone la fine quale stato ebraico. Il ricorso a ebrei per avvalorare tesi estreme di demonizzazione d'Israele è anzi centrale all'antisemitismo moderno per due motivi: da un lato, la conferma di certe tesi da parte di ebrei serve a sdoganarle e a metterle al riparo dalle accuse di antisemitismo; dall'altra, agli ebrei è mosso un ricatto: la loro denuncia d'Israele è necessaria per sottrarli da abusi verbali o peggio definiti in maniera più rispettabile come 'antisionismo'.

LM: come contrastare la delegittimazione e la demonizzazione dello Stato ebraico soprattutto quando proviene da ebrei e israeliani?
EO: Non è facile rispondere. L'ebreo o l'israeliano che si autodenuncia, come dicevo, è centrale al fenomeno attuale. Ci sono mille risposte ragionevoli che si possono dare: che quel che conta è la sostanza delle critiche, non l'identità religiosa, etnica o nazionale di chi le formula; e che occorre quindi guardare ai fatti, non a certe insinuazioni che misteriosamente guadagnano di rispettabilità solo perchè espresse da ebrei o israeliani. Se essere ebreo da maggior credibilità a certe tesi, vuol dire allora che la conferma della superiorità razziale dei bianchi, per dire, diventa vera se è avvalorata da un africano? O che la tesi secondo cui le donne sono vittime di violenza sessuale perchè si vestono in maniera discinta è vera se ce lo racconta una donna? Ovvio che no! E allora se questo è vero per donne e minoranze di colore, perchè non nel caso degli ebrei? I fatti poi sono importanti. Israele viene spesso paragonato al nazismo, ma anche nei casi peggiori di violazioni di diritti umani da parte d'Israele nel corso degli ultimi sette anni, ogni paragone al nazismo è semplicemente fuori luogo. Nel libro ho un intero capitolo sulla demonizzazione d'Israele dove dimostro questo doppio peso cui si fa ricorso con una certa leggerezza nel giudicare Israele. Il dato allarmante però, e in questo si spiega la difficoltà, è che con chi pratica la demonizzazione d'Israele, il ricorso ai fatti e ai ragionamenti, non serve. Il pregiudizio che anima la demonizzazione è difficile da sconfiggere perchè si fonda su un'ossessione e su un insieme di sentimenti irrazionali.

LM: come giudica la politica estera del Governo italiano?
EO: No comment.

LM: Lei sostiene (in un saggio pubblicato su "Commentary" nel 2005) che i dissidi geopolitici tra USA ed Europa sono destinati ad acuirsi: l'eventuale elezione all'Eliseo di Sarkozy e i buoni rapporti che la Merkel ha ristabilito con Washington potrebbero temperare i dissidi?
EO: Solo parzialmente. Prendiamo i tedeschi: tra Stati Uniti e Germania esiste lo stesso problema che esiste sull'Afghanistan con l'Italia, nonostante i colori diversi delle compagini governative: gli europei non vogliono impegnare le loro truppe in combattimento. Il risultato è che non solo sono gli alleati canadesi, australiani, e inglesi principalmente a subire perdite (insieme agli americani) ma il futuro dell'Afghanistan è tutt'altro che certo. Credo che le differenze - di natura culturale prima ancora che politica (vedi il recente eccellente libro di Andrei Markovits: Uncouth Nation, Why Europe dislikes America, presto tradotto in Italia) - continueranno a rendere la relazione difficile. Temo in particolare serie tensioni sull'Iran, se e quando il corso diplomatico arrivasse a un'impasse. La paura che la crisi irachena si ripeta è non solo ben presente, ma anche giustificata.

LM: l'Iran rappresenta un pericolo reale per Israele e per tutta la Comunità internazionale?
EO: Assolutamente si. Ma a mio avviso si sbaglia a ritenere che questo sia prima di tutto un problema d'Israele. In realtà lo è prima di tutto per la comunità internazionale. Se l'Iran acquisisse la bomba, la sua ombra si estenderebbe su due regioni fondamentali per il nostro fabbisogno energetico: il Golfo Persico e il bacino del Caspio. Possiamo permettercelo? Non solo, ma l'Iran eserciterebbe la sua rinnovata egemonia regionale acuendo le tensioni tra sciiti e sunniti nelle monarchie del Golfo, destabilizzandone i regimi. Al rischio di una guerra fredda di natura settaria tra sciiti e sunniti si aggiunge anche il rischio di proliferazione nucleare che non sarebbe limitato al Medio Oriente. Infatti, ci si deve aspettare una Turchia nucleare in risposta a un Iran nucleare, cosa che avrebbe ripercussioni negative sull'Europa. Chissà, la risposta potrebbe essere una Germania e una Grecia nucleari il che significa che l'Iran porterebbe a una proliferazione in Europa laddove nemmeno la Guerra Fredda c'era riuscita. Come vede, in questa lista di preoccupanti possibili scenari, la parola Israele non appare neanche una volta. La minaccia iraniana riguarda l'intera comunità internazionale, non Israele.

LM: la situazione dell'Irak è certamente grave: come giudica le nuove mosse dell'Amministrazione Bush?
EO: Non sono un esperto militare quindi non sono in grado di giudicare a pieno titolo l'opportunità di aumentare le truppe. Certamente, sembra chiaro che la strategia militare adottata tra il 2003 e oggi, con una presenza militare minima, sia stata estremamente controproducente e occorre ribaltare questa situazione. Andarsene non mi sembra saggio. Nessuno pensa alle conseguenze di una ritirata americana, ma le garantisco che la regione ne uscirebbe molto più instabile di quanto non lo sia già. L'Iran sarebbe incoraggiato, i radicali imbaldanziti, gli alleati americani sulla difensiva, i venti di guerra si estenderebbero, e le tensioni etniche in Iraq esploderebbero, con il rischio di pulizia etnica su larga scala. Mi sembra che occorra offrire un'ultima chance all'Amministrazione per cercare di cambiare le cose senza uscirne sconfitti. Le ripercussioni di un ritiro senza avere stabilizzato l'Iraq sono talmente negative che occorre sostenere la decisione di Bush di aumentare le truppe anche per chi è scettico sull'intero progetto Iraq.

LM: Lei ha frequentato nel 2005 come "visiting scholar" l'American Enterprise Institute a Washington, il covo per antonomasia dei Neoconservatives dei quali conosce approfonditamente il pensiero: è d'accordo con quanto sostiene il politologo Ottorino Cappelli (Università Orientale di Napoli) secondo il quale il merito dei Neocons è quello di aver contribuito a ristabilire il primato della Politica (ancorchè muscolare, la cd. matchpolitik) per determinare gli assetti dell'Ordine Mondiale, ribaltando la precedente mission economicista clintoniana?
EO: Pienamente d'accordo, anche se non sono sicuro che il merito vada tutto a loro.

LM: l'ex Neocon Francis Fukujama e altri osservatori hanno decretato il fallimento dell'agenda geopolitica neocons: è d'accordo?
EO: Fukujama ha anche decretato la fine della storia. Credo che le previsioni non siano il suo forte.

LM: infine Israele: come valuta l'attuale situazione e i contrasti all'interno della società palestinese?
EO: Preoccupanti. Anche se nutro poche speranze in una presa di coscienza della leadership palestinese di quali opportunità e quali limiti gli offra la storia, credo che nessuno guadagni dall'anarchia e dal caos attuali. Non dico questo per offrire un appiglio retorico a chi sostiene il governo di unità nazionale palestinese negoziato negli accordi della Mecca dell'8 febbraio scorso, ma credo che accanto a uno sguardo realistico ai gravi limiti dell'attuale situazione interna palestinese, bisogna anche sperare che le cose cambino. Il caos a Gaza e nella Cisgiordania rischia di destabilizzare la Giordania, e dare spazio alla duplice penetrazione di Iran e al-Qaida a un passo da Israele e sul Mar Mediterraneo.

LM: Grazie professore e tanti auguri per il Suo libro e i Suoi studi.
EO: Grazie a Lei e tanti auguri anche a Libmagazine.

Dal sito  http://www.libmagazine.eu/

da Libero del 7 marzo 2007, un intervista di Francesco Borgonovo:

Gli studi contemporanei sul razzismo e la discriminazione hanno individuato una forma profonda di violazione della dignità umana: quella che risiede nel cosiddetto «misconoscimento», ovvero nella negazione dell'identità dell'Altro da sè. Un esempio riguarda il ruolo della donna: in alcuni ambienti - soprattutto quelli politici e professionali - le donne vengono accolte, ma a condizione che si liberino della propria femminilità, che assumano caratteri maschili in modo da poter competere con gli uomini sullo stesso piano. A leggere l'ultimo saggio del docente universitario e giornalista Emanuele Ottolenghi ("Autodafè", Lindau, pp. 380, Euro 24 ) sembra che la stessa tendenza si intrecci ai fenomeni di antisemitismo contemporaneo: l'ebreo viene accettato a patto che si privi della sua "ebraicità". «C'è un desiderio di imporre agli ebrei un'identità non scelta e definita da loro stessi», spiega a Libero l'autore. «L'accettazione completa e incondizionata non esiste ancora. Gli ebrei vengono accettati, ma a patto che abbandonino la propria identità, rinuncino alla propria tradizione religiosa e cancellino il legame con Israele». Questo processo è particolarmente evidente in alcune delle più recenti rappresentazioni che vengono offerte degli ebrei e dell'Olocausto. Ottolenghi prende a esempio due film: "La vita è bella" di Roberto Benigni e "Il Pianista", di Roman Polanski. «Sono interessanti, commoventi, ben fatti» spiega «però entrambi hanno come protagonista un ebreo che di ebraico non ha nulla. Non lo vediamo mai andare in sinagoga, per esempio, non è in nessun modo riconducibile alla propria cultura. Non c'è nulla che ce lo faccia identificare come ebreo fino a che non scopriamo che viene perseguitato come tale». Insomma, ciò che suscita la partecipazione del pubblico non è tanto la discriminazione dei personaggi in quanto ebrei, ma il loro essere "vittime". «Alla fine delle due storie» prosegue Ottolenghi «a sopravvivere all'Olocausto non è il popolo ebraico, ma piuttosto la musica classica in un caso e la risata, l'ironia, nell'altro». In quest'ottica, il legame degli ebrei con Israele assume un valore ancora più forte, per cui attaccare lo stato ebraico significa attaccare anche gli ebrei e la loro cultura. Un atteggiamento che - se pur sopravvive in certi ambienti dell'estremismo di destra - si ritrova soprattuto nelle file della sinistra italiana, «che non si limita a criticare la politica dello stato, ma lo delegittima, lo demonizza e ne preconizza la distruzione come passo necessario per la pace in Medio Oriente e la libertà Palestinesi», sostiene Ottolenghi. «Agli Ebrei viene chiesto di schierarsi. Quelli che si schierano contro Israele sono buoni, quelli che si rifiutano di denunciare Israele come il male assoluto sono cattivi e attaccarli non è segno di antisemitismo», conclude. Israele, forse oggi più che mai, rappresenta il cuore pulsante dell'identità ebraica. «C'è un fortissimo legame degli ebrei con Israele» spiega Ottolenghi «che non si esprime necessariamente nel desiderio di trasferirsi lì. C'è un rapporto intimo, che non contraddice il fatto che si viva altrove nel mondo e in Europa. Questo legame infastidisce chi è infastidito dagli Ebrei».