Sami Michael Victoria 05/03/2007
Autore: Giorgia Greco

Victoria                                 Sami Michael

 

Traduzione                          Antonio Di Gesù

 

Giuntina                                Euro 17

 

La sua Baghdad non la vede da quasi sessant'anni, ma è un fiume, il Tigri, a rapire la sua nostalgia. "Mi manca. Mi manca quando esondava. O quando, al contrario, era in secca e si vedeva il fango sugli argini", dice Sami Michael, scrittore israeliano considerato tra i grandi del Paese, nato 80 anni fa a Baghdad. Seduto nel salotto della sua casa di Haifa, in uno di quei palazzi che dal Carmelo si aprono sul Mediterraneo, guarda un'altra acqua, quella del mare grigio per la pioggia. Nascere vicino a un fiume però è diverso. "E' nel tigri che facevo il bagno, ed è su di un ponte sul tigri che ho dato il primo bacio". Non è un caso che quel ponte e quel fiume, dunque, siano sulla pagina che apre il suo romanzo forse più bello, "Victoria",  uscito in Italia per i tipi della Giuntina. Su di un ponte scosso dalla folla e dal fiume in piena passa la protagonista che dà il titolo al romanzo, ragazza ebrea di Baghdad. Nascosta in un ampio velo nero in ossequio ai costumi sociali, e chiusa in un dolore indicibile per l'altro personaggio centrale del racconto, Rafael, l'uomo che, nel cortile della casa che fa da palcoscenico a un'epopea familiare, cambia le usanze, porta la rivoluzione, segna l'apertura al nuovo. Victoria avrebbe voluto suicidarsi, nel Tigri, e dimenticare l'amore, la gelosia e perfino l'odio che l'avrebbe tenuta legata a Rafael, da Baghdad, da quella casa in cui, cugini, erano nati e vissuti, sino alla casa di riposo in Israele, sessant'anni dopo. Dal Tigri fino a Ramat Gan, Michael ripercorre in questo romanzo, che ha decretato il suo successo nel mondo anglosassone come una sorta di Buddenbrok dell'ebraismo iracheno, non solo la saga di una famiglia. Mostra anche un amore moderno, il passaggio da una sessualità umiliante per le donne, alla gioia infinita di quando si fa l'amore insieme. Che Michael dovette spiegare, per esempio, a suo nonno, convinto che le donne non provassero piacere e che fossero come Najiyah, la madre di Victoria, una donna cattiva, pronta a sfornare figli e a maledire il mondo, per le botte prese da suo marito, che la penetrava come fosse un asino. Ironia della sorte, i sessant'anni della storia di Victoria e Rafael, e della loro grande famiglia, ricorrono anche nella vita di Michael. Che in questi giorni, a quasi sessant'anni dalla sua fuga, torna a Baghdad, virtualmente. Perché "Victoria", tradotto in arabo, viene venduto per le strade della capitale irachena. La sola idea lo commuove, mentre guarda la copia in arabo del suo romanzo poggiata sul tavolino del salotto. Una foto d'epoca in copertina, e i ricordi di Michael risalgono la corrente. Prima "bambino vagabondo" che con le scarpe in borsa se ne andava in giro per i quartieri musulmani della città, poi perseguitato politico, e infine scrittore e personaggio scomodo in Israele. Michael rivendica come la più grande ricchezza le tante identità che ha in sé. "Arabo ebreo", "patriota iracheno", laico del Medio Oriente, arrivato nel 1949 in Israele per sfuggire alle retate contro i militanti del Partito comunista iracheno di cui era uno dei giovani leader. Poi scrittore autodidatta in ebraico e combattente per i diritti civili di israeliani, palestinesi, gay. "Certe volte penso di essere un uccello che vola da una parte all'altra senza identità. O forse sono solo un'emigrante. E' nella mia casa di Baghdad che ho cominciato ad essere un emigrante. Quando ho portato Jack London e Lev Tolstoj in un ambiente così tradizionale come la mia famiglia. Lo stesso, che descrivo in "Victoria". Io sono stato come Rafael, che si presenta un giorno nel cortile con abiti di foggia europea, e indica il punto di passaggio per la comunità ebraica locale: da una comunità chiusa a una aperta alle influenze esterne, anche quelle europee". Rafael come Sami leggeva libri, il suo strumento verso la modernità.
Nella storia dell'ebraismo Baghdad e l'Iraq rivestono una posizione speciale. Per secoli Babilonia fu il centro. Una comunità ebraica che conservava nel suo dialetto le radici della lingua araba. "Parlavamo l'arabo del tempo degli Abassidi, mescolato con l'ebraico e con una forte influenza del persiano. Era una lingua elegante", dice. Una lingua per altro che Michael ha travasato nella sua prosa in ebraico, considerata da tutti i critici come ricchissima, intrisa di sapori orientali e delle fioriture della lingua di sua madre, con cui ha parlato in arabo sino a che, quattro anni fa, non è morta all'età di 103 anni. "Ora non sogno più in arabo. L'arabo è rimasto per far di conto. Ma c'è ancora un momento in cui sogno in arabo, quando parlo con lei. Mia madre masticava poco l'ebraico, baciava i suoi nipoti e i suoi pronipoti israeliani in arabo".
Michael era un figlio ribelle, "il ragazzo col cane", lo chiamavano nel suo quartiere, perché era l'unico ad aver adottato un animale che nel mondo arabo (ed ebraico sefardita) è considerato impuro. Poi l'adesione al comunismo. Come reazione alla propaganda nazista fortissima in Iraq, e alla guerra. "Ho cominciato a guardare a destra e a sinistra per capire chi mi avrebbe potuto difendere. L'Occidente non ci riusciva. Ma Mosca resistette e io pensai: questa è la mia garanzia". Il Partito comunista iracheno era formato soprattutto da sciiti ed ebrei. "Perché gli sciiti erano gli oppressi in un regime dominato dai sunniti. Ci facevano lavorare, a noi ebrei, nei loro quartieri, e anche nelle loro moschee. Mai una parola, mai un attacco ci è arrivato dai religiosi sciiti, che anzi sostenevano il movimento comunista in clandestinità". Tutti questi distinguo, però, lo infastidiscono, oggi. "La distinzione non era: lui è arabo, io sono ebreo. Era: io sono ebreo, lui è musulmano, l'altro è cristiano. Tutti noi, invece, guardavamo a noi stessi come arabi. Solo quando sono arrivato in Israele ho cominciato a pensare in maniera diversa. Ed è stato così strano per me, nello spazio di un volo aereo di qualche ora, arrivare in Israele e guardare gli arabi come miei nemici, proprio nello stesso momento in cui guardavo a me stesso come un arabo di religione ebraica. Lo stesso disagio provato dalla famiglia di Victoria, quando negli anni Cinquanta arriverà in aereo in Israele.
Persino gli steccati della religione non erano così alti. "Usavamo lo stesso nome per Dio. Certo, dicevamo Elohim, ma anche Allah. Come facevano i cristiani e i musulmani. E parlando dei nomi, si nota come in "Victoria" gli stessi ebrei hanno nomi arabi. E lui, Michael, si chiama all'anagrafe Salah Menashe, Sami Michael è un nome adottato dopo la fuga da Baghdad. "Con le mie due identità sono più ricco di un uomo che ne possiede una sola. Anche in questi tempi difficili: durante la guerra del Libano, l'estate scorsa, non mi sono mosso da questa casa, e dal balcone ho guardato i razzi hezbollah arrivare su Haifa. Chiamavo i miei amici arabi che vivono in questa città così come chiamavo mia figlia per sapere se stava bene".
La vita sembra averlo ripagato, per questa sua libertà. "Sono stato un uomo fortunato: ho sempre incontrato il lato buono dell'umanità". Anche "quando, fuggendo dall'Iraq a piedi, senza neanche dire addio alla mia fidanzata e a mia madre", Michael venne ferito. "Ai miei due più cari amici andò peggio. Uno venne impiccato, l'altro ucciso da un soldato che aveva tentato di uccidere anche me. Svenni, e quando mi svegliai avevo il corpo del mio amico su di me. Ero pieno di rabbia e volevo ammazzare il soldato. Improvvisamente, uno stuolo di donne sciite, coperte dal chador, si frappose tra me e lui, e picchiò il soldato fino ad ucciderlo. Erano arrivati gli angeli a salvarmi, e così svenni di nuovo". E oggi? "Tutto è cambiato. Quando vado al Cairo, da coloro che non mi conoscono (perché i suoi libri sono letti in Egitto ndr) sono visto solo come israeliano". Il nemico. Di quel arabo di Baghdad che è in lui, e che vive nei bellissimi romanzi israeliani scritti in ebraico, gli altri non vedono più i segni

 Paola Caridi

 

L’Espresso