Intervista ad Aharon Appelfeld 05/03/2007
Autore: Giorgia Greco

 

 Pubblichiamo un’interessante intervista ad AHARON APPELFELD apparsa su Lo Specchio de La Stampa di sabato 3 marzo a pagina 33 a firma Alain Elkann.

Aharon Appelfeld, lei è uno degli scrittori israeliani più affermati. A che cosa si sta dedicando? Che cosa sta scrivendo?

“Un romanzo, come sempre. La mia tecnica è molto semplice. Scrivo un libro, poi lo metto in un cassetto per quattro o cinque anni, quindi lo riprendo, lo ripulisco e lo finisco. Quando scrivo sono innamorato, quindi il dover cancellare è come vivere un peccato…Dopo cinque anni invece si cancellano facilmente intere frasi o paragrafi”.

 Quanto libri ha pubblicato?

 

 

“Io ne pubblico all’incirca uno all’anno. Ne ho scritti quaranta, molti sono stati tradotti”.

 

 

Essere uno scrittore israeliano, oggi.

“Io non sono nato in Israele. La mia prima lingua è stata il tedesco, l’ultima l’ebraico, la mia lingua madre adottiva. Quando sono arrivato in Israele, nel 1946, avevo 13 anni e mezzo. Io comunque mi considero a tutti gli effetti “lo scrittore israeliano”: la maggioranza degli israeliani sono emigrati con me e io li rappresento nel modo migliore”.

 

 

Perché?

 

 

“La maggior parte degli israeliani, essendo figli di una migrazione, hanno dietro di loro due mondi: quello del loro luogo d’origine e quello di Israele. La loro vita è segnata da una spaccatura. Israele è un Paese fatto di molti Paesi e io vivo in molti Paesi: dentro di me vivo in molti paesaggi e vivo in molte lingue”.

 

 

Ma che cosa vuol dire essere uno scrittore, uno scrittore ebreo?

 

 

“Essere scrittore vuol dire credere ancora che dentro di noi ci sia qualcosa di buono o, se si vuol, di divino. Sapendo tutti che siamo qui, su questa terra, per l’equivalente di un momento, dovremmo tutti amarci, non odiarci. E’ un onore essere ebreo. I miei genitori e i miei nonni erano intellettuali e sono stati assassinati solo perché avevano sangue ebreo nelle loro vene. Io sono uno scrittore ebreo e non potrei essere altro: nei miei libri parlo della nostra religione, del nostro modo di vivere. Certo sono anche radicato nella tradizione europea, perché gli ebrei sono parte dell’Europa e non si possono immaginare gli ebrei senza l’Europa”.

 

 

La sua posizione di fronte al conflitto con i palestinesi.

“Trovo difficile confrontarmi con questo problema…contrariamente alla maggior parte degli intellettuali europei, che sono devoti alla causa palestinese e se non accetti le loro posizioni sei escluso dalla loro compagnia. Anche in Israele la maggior parte degli intellettuali sono pro-palestinesi”.

 

 

Va bene, ma lei?

 

 

Io sono un vecchio umanista: so che in ogni conflitto ci sono due parti e in ogni parte c’è una verità. Io vorrei capire entrambe le parti. Così vuole la vecchia tradizione”.

 

 

I suoi tre figli sono stati nell’esercito.

“Certo, e sono molto ben informati su ciò che accade. Ma io chiedo un po’ di obiettività: leggo i giornali europei, tutti condannano Israele eppure Israele non è un Paese barbaro. Certo ci sono molti stupidi, molta gente arrogante, molta corruzione come in tanti altri Paesi, ma non è un Paese barbaro. Ho molta paura che Israele venga demonizzato. Non sento nessuna vera voce dall’Europa contro le tesi del presidente iraniano, per esempio: mi aspetterei che degli intellettuali dicessero una parola….”

 

 

Che cosa accadrà?

 

 

“Israele è in uno stato permanente di stress e la gente vive nella paura. Il mondo islamico non accetta la nostra esistenza e l’Europa è in qualche modo ostile, così ogni mattina mi chiedo: che cosa c’è di sbagliato in me, sono così terribile?”

 

 

C’è una soluzione?

 

 

“Lo spero: noi dobbiamo essere accettati”.