Natascia Danieli L’ epistolario di Mosheh Chayyim Luzzatto 01/03/2007
Autore: Giorgia Greco

L’ epistolario di Mosheh Chayyim Luzzatto             Natascia Danieli

Giuntina                                                                              Euro 30,00

 

 

 

 

 

 

I tre rabbini frugano negli armadi, aprono i cassetti, passano i libri a uno a uno. Una perquisizione in piena regola. Il caso è grave, perché il giovane Mosheh ha messo a rumore non solo il ghetto di Padova ma anche le austere scuole talmudiche della vicina Venezia. Le voci si fanno sempre più insistenti. Bisogna fermare lo scandalo, prima che sia troppo tardi.

 

 

Ed ecco che saltano fuori “uno specchio da mano con la coperta di sagrino nero, e coltelli col manico nero e un candelotto di cera, annerito dal continuo maneggio”. Il sospetto diviene certezza quando compaiono, su vecchie pergamene, formule per scongiuri e diagrammi magici. Non c’è dubbio, quell’armamentario serve per cerimonie di qabbalah pratica, per invocare le forze sefirotiche con rituali proibiti.

 

 

Interrogato, Mosheh accampa qualche scusa. Specchio e rasoio li usa per farsi la barba (ma non ne ha quasi!) e la candela per far luce mentre si rade. Ma i rabbi alzano la voce, chiamano suo padre, lo minacciano “D’una rovina totale della sua casa”, di trascinare anche lui, rispettato mercante di sete e granaglie, nella vergogna. Il giovane è costretto a firmare un foglio, in cui s’impegna solennemente a non scrivere né insegnare più di qabbalah. Simula forse mansuetudine, ma i suoi occhi brillano cupi e mostrano come non sia affatto pentito di quei suoi esperimenti con l’invisibile.

 

 

“Enfant gâte”, eretico e provocatore, Mosheh Chayym Luzzatto è una delle figure più singolari del Settecento ebraico. Aveva studiato con precettori privati fino a conseguire, nel 1726, il primo grado del cursus rabbinico, ma subito gli si era rivelata quella voce interiore, il “maggid”, che gli suggeriva vertiginose visioni mistiche. Tra il 1727 e il 1730 dettò così a un allievo-segretario oltre tremila pagine di rivelazioni cabalistiche, quasi una scrittura automatica, con cui delineava il nuovo ordine cosmico che si sarebbe instaurato dopo la venuta del Messia.

 

 

La personalità carismatica di Mosheh sembrava fatta apposta per infiammare l’entusiasmo degl’intellettuali stanchi della vita stagnante del ghetto. Si strinse così, attorno a quel maestro quasi ancora adolescente, un circolo di adepti, uniti dalla venerazione per lo Zohar, il capolavoro della qabbalah sefardita del medioevo.Nello statuto di fondazione del gruppo esoterico si legge che i membri s’impegnavano a studiare questo libro, considerato santo, giorno e notte, senza smettere mai. Il ruolo di ciascuno era stabilito con precisione, in una sorta di cerimoniale mistico, che doveva portare alla redenzione delle anime e a quella del mondo stesso.

 

 

Ma che un giovane privo della necessaria maturità si arrogasse la dignità di maestro era, per il giudaismo dell’epoca, segno di presunzione inaccettabile. Alla “perquisizione”, che portò alla scoperta del materiale compromettente in casa Luzzatto, seguirono altre pressioni, fino alla scomunica dei suoi scritti nel 1735.

 

 

Mosheh  non si piegò, lasciò l’Italia alla volta di Francoforte sul Meno e poi della più ospitale Amsterdam. Qui si ricreò una cerchia di ammiratori e discepoli, che lo veneravano come guida spirituale.

 

 

Tuttavia, ancora inappagato, Luzzatto decise di emigrare in Terra Santa, ad Acco.

 

 

Di quel soggiorno non si sa quasi nulla, e solo una notizia rompe il silenzio di un isolamento cercato nella visione interiore: la morte di peste, a soli 39 anni, di quest’ultimo genio della qabbalah italiana.

 

 

 

 

Giulio Busi

Il Sole 24 Ore