Avishai Margalit Etica della memoria 01/02/2007
Autore: Giorgia Greco

Etica della memoria Avishai Margalit

Traduzione di Valeria Ottonelli

Il Mulino Euro 13

 Il giorno della memoria si fa una presenza sempre più invadente. E’ diventato ormai una stagione carica di eventi e parole, una vera e propria sfida alle potenzialità innovative di cui è capace questo mondo mediatico: che cosa si potrà mai inventare di nuovo per ricordare ciò che è già stato? Il paradosso è ovvio, implicito in questa domanda. La sfida alla monotonia della ricorrenza è davvero ardua, eppure si direbbe che la resa sia un atto ignominioso. Il silenzio non viene preso in considerazione: le iniziative si moltiplicano in cerca di un "non ancora detto,"non ancora mostrato".

Scuole ed enti locali s’ingegnano per contrastare lo spettro della ripetizione –ferma restando la necessità di "fare qualcosa". Anche gli editori hanno ormai assunto questa ricorrenza come una rituale scadenza nel loro calendario di uscite.

Terminata la profusione natalizia arriva puntuale la serie di libri dedicati alla Shoah.Analisi storiche, testimonianze sempre più in bilico sull’attendibilità del passato. I sopravvissuti ci lasciano per delle ragioni dettate non da loro né da noi ma dalla natura stessa: le loro memorie sono sempre più rare. Al loro posto ecco incursioni romanzate, storie di storie, beffardi e improbabili capovolgimenti di destino. Man mano che la distanza nel tempo aumenta, le vicende diventano sempre più complicate: arabeschi del passato.

Pensare che basterebbe leggere Primo Levi per sapere – e sentire – tutto. Qualche pagina, basterebbe. Invece, questa ridondanza di materia – sia essa in forma di mostra documentaria, novità editoriale, iniziativa scolastica – finisce per diluire. Che cosa? Difficile dirlo. Difficile dare un oggetto a questa sensazione di "esubero", articolare con le parole il presentimento di un troppo che fa sbiadire.

Che cosa? Come si fa a far sbiadire il nero impenetrabile di quella storia? Di quei morti senza voce? In fondo a tutto ciò, alle perplessità che vengono dal constatare quanto la ritualità connaturata in ogni cerimonia sia inadeguata alla memoria, a questa memoria, c’è una domanda ancora più bruciante. Persino tabù, in giorni come questi. A che serve, veramente, ricordare? Ha un senso?

Il libro di Avishai Margalit, Etica della memoria, aiuta a declinare queste domande.Le sfila dall’indicibile. Le trasforma, e più che mai in giorni come questo, da scabrose in necessarie.

Siamo tenuti a ricordare – in particolar modo fuori dai parametri religiosi? La memoria non è necessaria. O per lo meno, lo è non più dell’oblio. E’ una conoscenza non del passato in sé, ma che ci proviene dal passato. Non è detto che la conoscenza sia formativa, può risultare anche deleteria: come disse Primo Levi, il fatto che sia accaduto non limita, anzi moltiplica le probabilità che ciò accada di nuovo. Rammemorare il passato è un imperativo, uno strumento, un dettato identitario. Può diventare anche una feroce potenzialità: quello di riportarlo in vita. Ciò non significa, beninteso, che il giorno della memoria ci assicuri il ritorno di quel passato oggi rievocato con tanto slancio collettivo. Ma non illudiamoci troppo sulla portata educativa tout court di questa iniziativa globale. Non diventiamo più buoni per il semplice fatto di ricordare. O di indurre scolari e lettori, visitatori di mostre e spettatori, a ricordare la Shoah.

Che la memoria di per sé non sia morale è il perno intorno al quale ruota l’argomentazione di Margalit. "La memoria suscita vendetta tanto spesso quanto suscita riconciliazione, e la speranza di raggiungere una catarsi attraverso la liberazione dei ricordi potrebbe rivelarsi un’illusione….Nel corso dei capitoli giungerò alla conclusione che, sebbene si dia un’etica della memoria, nella memoria c’è ben poca moralità". La nostra esperienza individuale ci dice che memoria e oblio sono impulsi incontrollabili: ricordiamo e dimentichiamo non ciò che la nostra morale o i nostri bisogni spirituali ci impongono, ma ciò che i nostri neuroni ci dettano. A livello collettivo, questo significa che la memoria artificiale – creata dalla ricorrenza – chiama un movente diverso dalla morale in sé. Non dobbiamo ricordare perché ciò giusto, bensì inevitabile. Questa inevitabilità sta riposta in un nucleo emotivo, indefinibile. Margalit aiuta a riflettere sulla memoria come condivisione sentimentale. In questo senso, la strada è stata aperta da Martha Nussbaum con L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino 2004 pp. 868, Euro 45): una filosofia del sentire, invece del sapere. O meglio, del conoscere attraverso il sentire. Il ricordo delle emozioni non dovrebbe essere l’effetto, ma la causa prima della memoria: essa, in quanto immedesimazione nel passato, è un elemento centrale nell’identità ebraica. Il ricordo dell’Esodo dall’Egitto è celebrato nella Pasqua come una vera e propria rivisitazione sentimentale guidata dal precetto non tanto di ricordare quanto di "fare come se fossimo noi, in prima persona, ad uscire dall’Egitto".

Ma quanto è possibile condividere una memoria che ti respinge come quella della Shoah? L’orrore genera una repulsione istintiva, un rifiuto dettato dall’impulso di sopravvivenza – fisica ed emotiva. Come quando discostiamo di scatto da una fiamma. Il giorno della memoria, invece, fa dell’esuberanza di manifestazioni una forma di rassicurazione collettiva. La condivisione s’innesca non con il passato ma nella celebrazione del medesimo, che per contro sfuma dietro il sipario dell’evento – invece di tornarsene fra noi.

Parlandone così tanto, è come se si stemperasse quella che è la natura più densa e più scura e più tremenda di quel passato: la sua ineffabilità. La certezza che le parole sono insufficienti, le immagini opache, i numeri inadeguati. Tutto ciò non nulla di nulla, al confronto con il silenzio di tutti quei morti, l’orrore imperdonabile di quello che hanno sofferto.

Lo sappiamo fin troppo bene noi che siamo figli della Shoah,nati a un passo di tempo da quel buco nero, sopravissuti perché questa è la nostra condizione anche se siamo arrivati dopo. Distanti un’eternità e un’infinità da quella storia.Questo solo sappiamo: che mai riusciremo a comprenderla. Non nei suoi tratti storici, nella cronaca dei fatti. No,non in questo. Piuttosto, è la consapevolezza dolorosa, a volte straziante, di non poter capire quel dolore e quello strazio che ci stanno appena alle spalle, da cui un soffio di tempo e un abisso scuro e muto ci separano.

Elena Loewenthal

La Stampa