Sul Burka e altro 29/12/2006
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Il Burka non è solo come lei lo descrive. Dentro c'è una donna prigioniera di una società che opprime tutti, donne e uomini, un indumento che presuppone la legge della sharia, una società fondamentalista. Che è peggio di quella che lei critica non senza buone motivazioni, da migliorare, non da sopprimere.

 

Auto-burka e “garanzie” di un mondo “civile” e cervellotico.

 

 

Neanche a me piace il burka. Attraverso questo capo di abbigliamento non si intravede né si identifica la persona che lo indossa.

 

Per giunta, inquieta. Si nascondono, in realtà, tutte le parti del corpo compreso il viso. Quindi, le espressioni, i ghigni, le rughe di consenso e di disappunto.

 

Non si sa neanche se sotto quel capo, si nasconda una donna oppure un uomo.

 

Infatti, una caratteristica che contraddistingue il burka, è la mancanza assoluta di stile, di uno stile che, almeno, riesca a caratterizzare “una” piuttosto che un “altro”.

 

Non può definirsi neanche una divisa perché manca dei gradi che individuano e qualificano il possessore. Allora, cosa è un burka? Un sacco? Una maschera? Una furbizia? Una violenza?

 

Ma perché, cosa è un’auto blu con i vetri oscurati? Non è forse un burka a quattro ruote?

 

Da questo autoveicolo, non si evince niente che possa far identificare i passeggeri. Donne o uomini, vecchi o giovani pochi o molti, non è dato sapere. L’unica cosa che è certa è che dentro a quel burka motorizzato, c’è un personaggio importante, uno famoso, un politico oppure un mafioso. La cosa che meraviglia è che nessuno ne abbia mai fatto una questione neanche a livello di pettegolezzo. Non fa nessuna impressione, nessuno ci fa caso, nessuno si lamenta. L’auto-burka, invece, è una cosa normale, una necessità. Chi sa perché, in quel caso, non conta assolutamente niente identificare i passeggeri, neanche per ordine pubblico.

 

Già, siamo in un paese, in una Europa, dove sembra che tutto si faccia all’insegna della sicurezza, della tutela della privacy e della salvaguardia della salute. Eppure, gli incidenti sul lavoro aumentano in maniera esponenziale, le intercettazioni illecite ai danni di tutti proliferano, le polveri sottili uccideranno parecchi di noi da qui a qualche anno.

 

Il “codice” ci ammonisce ogni giorno a seguire i dettami della sicurezza: indossare la cintura, evitare i grassi saturi, camminare almeno trenta minuti al giorno, mettere il casco. Non si capisce ancora, come con queste esagerazioni, peraltro inefficaci, non sia stato ancora bandito l’uso delle motociclette che sono delle auto senza porte e senza cinture, senza protezioni di carrozzeria e, per giunta, con due ruote in meno.  

 

Ma il burka-abito, qualcuno proprio non riesce a sopportarlo.

 

Neanche il velo si sopporta anche se lascia il viso scoperto ed è meno integrale del burka, figuriamoci. Anche a quello ci attacchiamo attribuendo, a questo, un insostenibile sentimento di insofferenza.

 

Scontri tra religioni ne hanno fatto una “tenzone”, siamo sull’orlo di una capitolazione ideologica-religiosa che non concilia né aggrega ma divide e fomenta solo odio e per cosa? Per un velo.

 

Il mondo occidentale si è detto, anche in maniera molto grossolana e spesso offensiva, sembri essere più evoluto, ma non riesce neanche con uno sberleffo a smitizzare certe esagerazioni. Viviamo un mondo economicamente forte, edonista, narciso, elegante e smorfioso, blindato nei propri complessi, invischiato in un’auto stima fasulla e friabile come un biscotto secco.

 

Basterebbe che qualche “stilista” provasse a mettere il velo anche alle donne europee, con stile e per moda per poter eliminare un falso problema sul quale fior fiore di studiosi ed esperti di religioni si stanno sgolando nei loro simposi.

 

Ma non è solo questo. A causa dell’esagerato garantismo di questo mondo pseudo-evoluto, non vediamo più il volto dei bambini in televisione. Perché, in questo modo, dicono, li tuteliamo. Il bambino è presentato come un fantasmino col volto sfigurato.

 

Poi, su di loro, gli abusi e le violenze non si contano tra i pastori di anime e negli spot pubblicitari.

 

Sono scelte di società moderne, avanzate che si dimenticano, però, di oscurare in volto dei bambini neri del Darfur quando, inquadrati in un servizio “umanitario”, mettono in risalto gli edemi dei loro addomi pieni di fame e speculano sul loro genocidio.  Quanta delicatezza!

 

 

Salvatore Viglia