Non rivalutiamo il politicamente corretto 19.10.2006
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Bernard-Henry Lévy si è prodotto in una discutibile rivalutazione del “politicamente corretto”. Riconoscere al “politicamente corretto” il merito di aver combattuto il linguaggio offensivo e razzista è troppo ovvio per non essere banale: il “politicamente corretto” è molto molto di più, ed è questo di più che ha prodotto gli effetti che sono oggi alla radice della disgregazione dell’occidente. Dice un personaggio di “Vita e destino” di Vassilij Grossman: “Non credo al bene, credo alla bontà”. Aggiungerei: non bisogna credere neppure al buonismo. Il “politicamente corretto” trasforma l’invito a operare bene nella concretezza, in un manifesto ideologico e astratto del bene e della bontà che vuol rifondare dalle radici il comportamento e il linguaggio degli uomini. E’ un programma di igiene radicale e assoluta che non si ferma di fronte a nulla: magari demonizzando, senza tema del ridicolo, termini come “history” perché nasconderebbe “his-story”, la storia di “lui” e non anche di “lei”. Il “politicamente corretto” non ha soltanto predicato di non dire più “sporco negro”, ma anche di non dire “cieco”. E’ un’ipocrisia colossale che rende impresentabili parole innocue e così svela il vero movente: la vergogna per tutto ciò che non è sano, prestante e bello. E’ la vergogna della malattia, delle infermità e della morte, autentica piaga della nostra società. Ma c’è di peggio. Questo peggio accade quando si imbocca la via delle ricostruzioni globali, delle rivoluzioni, non accettando l’uomo per quel che è, e il paziente compito di correggerlo; e ci si propone invece di azzerare totalmente comportamenti e linguaggi. Quando si imbocca il sentiero della palingenesi rivoluzionaria si incontra un noto figuro: l’odio di sé, che spinge a censurare e riscrivere interi brani di letteratura, gettare alle ortiche la quasi totalità della letteratura occidentale, vista tutta come razzista, maschilista, nemica dell’“altro”. Ci vorrebbe molto spazio per descrivere come questa ideologia sia nata in Europa, trovando alimento nelle teorie decostruzioniste dei Foucault e dei Derrida, e abbia colonizzato il mondo accademico e culturale anglosassone. Nel suo ultimo libro “Umanesimo e democrazia”, Edward Said ha descritto in modo illuminante come sia avvenuto il processo (di cui egli è stato un protagonista) di distruzione della cultura umanistica un tempo dominante nelle grandi università americane e che era centrata attorno ai grandi classici greci, latini ed europei, da Omero a Eschilo, da Platone alla Bibbia, da Virgilio a Dante da Shakespeare a Cervantes e Dostoevskij. Oggi tutti marginalizzati o epurati da un nuovo “umanesimo” politicamente corretto e terzomondista che rigetta il razzismo “orientalista” di cui sarebbe intrisa quella cultura. La Columbia University rifondata da Said è l’emblema di questo “politicamente corretto” fondato sull’odio di sé dell’occidente, che è ferocemente intransigente contro ogni sua minima “colpa” e massimamente tollerante nei confronti delle trasgressioni degli “altri”, degli “esclusi”, che sono per definizione “buoni”. Qui è la chiave dell’attuale processo di disgregazione morale dell’occidente. Si decreta per legge che è perseguibile chi nega il genocidio degli armeni e si mette in galera Irving, mentre uomini politici e università dell’occidente accolgono calorosamente quell’Ahmadinejad che proclama che la Shoah non è mai avvenuta e che si dà come programma la realizzazione del secondo terzo dello sterminio dell’ebraismo mondiale. Si critica il discorso del Papa a Ratisbona, in quanto scorretto nei confronti dell’islam e ci si scaglia contro le vignette danesi su Maometto, ma all’“altro” è consentita ogni derisione dei simboli del cristianesimo (“il crocefisso come disgustoso cadaverino appeso”). Si possono diffondere edizioni del Corano con commenti che definiscono gli ebrei come scimmie e maiali (con compiacenti introduzioni di noti intellettuali), ma si rischia la cacciata da certe università se non si chiamano gli indiani “native americans” (espressione di ridicola ignoranza). Lévy dice che a lui basterebbe una Costituzione europea con un solo articolo: “Mai più Auschwitz”. Gliela potrebbero concedere in nome della prassi per cui nel Giorno della Memoria questa formula viene recitata religiosamente come alibi per condannare gli ebrei vivi in quanto nuovi nazisti. A fronte dei disastri del politicamente corretto, vantarne i meriti per l’igiene del linguaggio, è come vantare l’efficacia della bomba ai neutroni per curare l’influenza.
 
dal Foglio del 19.10.2006