Jacob Golom Nietzsche e Sion. Motivi nietzschiani nella cultura ebraica dell’Ottocento 06/11/2006
Autore: Giorgia Greco
Nietzsche e Sion.
Motivi nietzschiani nella cultura ebraica dell’Ottocento       Jacob Golom
a cura di Vincenzo Pinto
Casa Editrice:       Giuntina                      Euro 28,00

Nietzsche il filosofo della superiorità ariana. Nietzsche l’esteta della
violenza, il cantore della “bestia bionda”. Nietzsche che ha predicato la
volontà di potere e il dominio del superuomo sul mondo.
Nietzsche che ha seminato nella cultura tedesca la mala pianta del
nazismo….Il pensiero di Nietzsche che sembra irrimediabilmente antitetico
al fato ebraico del Novecento.
Almeno dal 1933 grava su Nietzsche una sorta di damnatio memoriae, che ne
fa il simbolo della lunga malattia antigiudaica dell’Europa. Ma se è vero
che la sorella del filosofo vide in Hitler la personificazione del sogno
del superuomo e i nazisti cercarono di appropriarsi delle sue idee, il
continente Nietzsche è ben più esteso degli stereotipi che lo oscurarono.
La tragedia delle persecuzioni ha fatto dimenticare l’enorme influsso che
tra la fine dell’Otto e gli inizi del Novecento il pensatore esercitò sugli
intellettuali ebrei del vecchio continente.
Il un libro provocatorio e intelligente, Jacob Golomb dell’Università
Ebraica di Gerusalemme riapre il dossier del rapporto tra Nietzsche e il
giudaismo. La posta in gioco è in realtà alta. Non si tratta infatti
soltanto di un’indagine accademica di storia della filosofia ma piuttosto
dell’esplorazione di una fase cruciale della vicenda collettiva del popolo
ebraico. La tesi di Golomb è infatti che Nietzsche sia uno dei padri
occulti del sionismo. Espressa in questi termini, l’affermazione è quanto
meno ardimentosa, ma il paziente lavoro filologico, che si snoda per
quattrocento pagine, riesce a far breccia nello scetticismo del lettore.
Golomb mostra – carte alla mano –come l’ermeneutica nietzschiana
contribuisca al nucleo utopico e paradossale del progetto sionista. Non è
una semplice questione di Zeitgeist, di “spirito dell’epoca”, ma di una
essenziale affinità tra l’inquietudine dei padri fondatori del sionismo e
quella del filosofo tedesco. Da Theodor Herzl a Micha Josef Berdichevski,
da Hillel Zeitlin a Martin Buber, alcuni dei maggiori protagonisti del
sionismo lessero e annotarono con passione le opere nietzschiane. I volumi
di Nietzsche in costose legature di pelle troneggiavano per esempio nella
biblioteca di Herzl, che era imbevuto dello stile oracolare del maestro
Zarathustra. E che dire poi di Berdichevski, che lo definì “rabbi
Nietzsche”, o di Buber che lottò a lungo per liberarsi da una sorta di
“intossicazione” nietzschiana.
Rabdomante impareggiabile della crisi del moderno, Nietzsche attirava
questi ebrei in cerca di una via di riscatto innanzitutto personale. E’
questo il punto su cui fa leva Golomb, ovvero sulla genesi individuale del
movimento che prese poi il nome di sionismo.
Quello che Herzl e i suoi compagni di ventura volevano realizzare era
infatti in primo luogo una cura per le proprie anime lacerate e per la
propria condizione di marginalità.
Nella seconda metà dell’Ottocento era divenuto evidente che le promesse
dell’Illuminismo sarebbero rimaste incompiute. Agli ebrei erano stati
riconosciuti, è vero, i diritti politici, ma alla libertà e all’eguaglianza
formale non si affiancava certo la fraternità; rimanevano ospiti scomodi
nelle compagini nazionali europee, stranieri agli altri e a se stessi.
Inseguendo il richiamo dell’assimilazione, gli intellettuali di punta
avevano così abbandonato la tradizione e scontavano ora una doppia
estraneità. Invisibili o male accetti per la maggioranza cristiana, non si
sentivano più di condividere il passato della diaspora e la secolare
disciplina della diversità religiosa. Ecco perché abbracciarono con
entusiasmo il faticoso cammino di auto superamento tracciato da Nietzsche.
Cercare il proprio sé e realizzarlo come un’opera d’arte era il messaggio
nietzschiano, che richiamava gli ebrei “afflitti dalla sindrome di
marginalità”.
Le opere del filosofo si trasformarono in manuali su “come si diventa ciò
che si è”,ovvero sul metodo per far nascere dalle rovine del giudaismo la
consapevolezza del “nuovo ebreo”. Nietzsche insegnava che per “costruire un
tempio è necessario distruggerne un altro”, e così i futuri sionisti si
misero all’opera per demolire il santuario del giudaismo rabbinico, passivo
e apollineo, in modo da far posto all’ebraismo eroico e dionisiaco da
realizzarsi in Terra d’Israele, la nuova patria.
Da questa rilettura del sionismo si comprende quanto ci sia di nietzschiano
in quel salto all’indietro per raggiungere il passato monumentale che
libera dal torpore della diaspora. L’utopia sionista si nutre infatti del
mito dell’antico Israele, forte e combattivo, e volge in questo modo le
spalle alla lenta disciplina dei rabbi. Come Nietzsch, Herzl e compagni
vollero pensare inattualmente, e proprio dall’inattualità nacque il sogno
di una risalita perigliosa  lungo il fiume della storia.
Certo, non tutto nel sionismo è nietzschiano, poiché è evidente che il
lievito del movimento nazionale ebraico è una solidarietà di gruppo assai
lontana dall’individualismo del filosofo tedesco. Eppure è fuor di dubbio
che la “negazione della negazione”, con cui i primi sionisti vollero
riguadagnare la terra perduta delle loro anime, nacque anche dal tormento
di “rabbi Nietzsche”.


Giulio Busi
Il Sole 24 Ore